Sono le 4.15 del 17 giugno 1983 quando Enzo Tortora viene prelevato dalle forze dell’ordine dalla sua stanza dell’Hotel Plaza, a Roma, e condotto in caserma. Inizia così un incredibile calvario che durerà fino al 1987 e che lo vedrà infine assolto con formula piena da tutte le accuse rivoltegli, ma profondamente segnato da un processo che ha messo in luce in maniera clamorosa le fragilità del nostro sistema giudiziario.
Nel ricordo della figlia Gaia, contenuto in un libro a tratti lancinante (Testa alta, e avanti, Mondadori, 2023), c’è tutto il senso di una vicenda che ci fa comprendere come la macchina giudiziaria, se non usata correttamente, possa in un niente trasformarsi in uno strumento di inaudita violenza e brutalità, in una fonte di soprusi legittimati dalla potenza inscalfibile dello Stato, degradato a Moloch laico, tanto più intollerabili in quanto perpetrati in un Paese democratico. È una Gaia quattordicenne, che quello stesso giorno deve sostenere gli esami di terza media e che vede di colpo il padre trasformarsi attraverso il tubo catodico da star della tv in pericoloso criminale: «la televisione è accesa sull’immancabile Rai 2, la rete per cui lavora papà. Parte la sigla vagamente psichedelica del telegiornale. Mezzogiorno è passato da poco. Sullo schermo appare un signore. Di mio padre ha i tratti del volto, il giubbetto azzurro, i capelli brizzolati con la riga a sinistra, ma non può essere lui. Come fa a essere lui? È ammanettato. Due agenti lo tengono per le braccia, come se fosse un pericoloso malvivente a rischio fuga. La gente lo insulta, alcuni gli sputano addosso. Eppure deve essere lui, lo dice il telegiornale».
Dagli applausi – a quel tempo Tortora conduceva Portobello, un programma da 26 milioni di spettatori, ed era da anni tra i protagonisti indiscussi della tv italiana insieme a Mike Buongiorno, Corrado e Pippo Baudo – agli sputi, nel volgere del breve tempo di un battito di ciglia. E la foto di Enzo Tortora in manette diviene l’icona della giustizia male amministrata, dando il la al coro dei colpevolisti (tantissimi, quasi tutti) e degli innocentisti (davvero pochi). Il prologo del primo caso di giustizia mediatica che il nostro Paese ha conosciuto (almeno in epoca televisiva), nel quale alla pochezza (ma sarebbe meglio dire inconsistenza) degli elementi a sostegno dell’accusa si contrappone un profluvio di attacchi e di argomentazioni che, a vario titolo e nei modi più disparati, intendono supportare – fuori dalle aule in cui si svolge l’attività giudiziaria – la tesi di Tortora «uomo criminale».
Nel mandato di cattura si parla di associazione a delinquere di stampo camorristico – la temibile NCO di Raffaele Cutolo – finalizzata al traffico di stupefacenti, ad accusarlo sono due pentiti, Giovanni Pandico e Pasquale Barra, con una lista di gravi e raccapriccianti reati a proprio carico. L’unico riscontro è un numero di telefono annotato a penna su un’agendina sotto il nome Tortora. Si scoprirà poi che si tratta del sig. Tortona, e non Tortora, e che il numero non è del presentatore televisivo… Ma tutto ciò non conta, perché il tribunale mediatico lo ha già condannato, anche se non mancano alcune voci fuori dal coro, come quella di Enzo Biagi che a una settimana dall’arresto osa chiedersi: «E se Tortora fosse innocente?», infrangendo l’unanimismo colpevolistico, o di Piero Angela che lancia un appello con cui si auspicano riforme del diritto processuale penale a tutela della dignità e della libertà personale. Ancora Biagi, icasticamente, afferma: «si ha l’impressione che, dopo aver messo le manette a Tortora, stiano cercando le ragioni del provvedimento».
Sono passati esattamente quarant’anni, molte cose sono cambiate, abbiamo un codice che ha sostituito quello vigente all’epoca, nato nel ventennio e poi riveduto e corretto per adattarlo alla Costituzione, oggi non è più possibile diffondere immagini di persone in manette, esiste una disciplina che regola la responsabilità civile dei magistrati, eppure la lezione del caso Tortora non può e non deve essere dimenticata. La moltiplicazione degli strumenti di comunicazione a seguito della rivoluzione digitale alimenta infatti il processo mediatico, magari in forme meno eclatanti ma non per questo meno nocive.
Gli errori giudiziari sono sempre dietro l’angolo, perché la giustizia umana è di per sé imperfetta. E le norme vanno applicate e interpretate correttamente, non piegate a sostenere teoremi e pre-giudizi. In ogni caso. Perché dietro ad ogni processo c’è un uomo.