Nel 2000, l’art. 30 del D.P.R. n. 396 prevedeva, dopo anni di pressione sociale, che la dichiarazione di nascita dovesse rispettare l'eventuale volontà della madre di non essere nominata. Questa disciplina emancipava, tra le altre cose, dal senso di colpa con cui ciascuno doveva fare i conti quando la cronaca rimandava l’immagine di bambini finiti nei cassonetti. In passato si diceva, parlando di chi si presentava col cognome «Esposito», che quell’infelice aveva, alle proprie origini, un abbandono alla nascita, perché discendente di un infante esposto davanti ad un convento.
Questo si raccontava, negli anni ’60, quando il sentimento di misericordia verso i più sfortunati era l’afflato che impregnava di buone intenzioni l’educazione al pietismo che imponeva l’immagine di un neonato sventurato perché nato da una donna che aveva abdicato ai compiti materni. Sentimento corroborato da uno stigma sull’inadeguatezza delle madri che compivano azioni «innaturali» ed in contrasto con la loro peculiare funzione.
I bambini abbandonati nella «Ruota deli Esposti», davanti all’Ospedale dei Bastardini a Bologna, nel 1836 erano 2.060, nel 1858 erano 2.300 e nel 1873 il numero arrivava a 3.358. Quindi, già all’epoca si riteneva importante trovare una soluzione all’insorgente problema delle nascite indesiderate. Nella fase postunitaria, per alimentare questi bambini, era molto diffusa la pratica del baliatico, la sopravvivenza di questi infelici abbandonati veniva garantita dalle donne che avevano da poco partorito e che ricevano un compenso che consentiva loro la sopravvivenza dell’intera famiglia e, quindi, si prestavano all’allattamento. La storia di questo mutuo soccorso tra donne – non gratuito – è la drammatica narrazione di trasmissione di malattie veneree, il mal francese (sifilide), contratte da bambini che, nati ammalati, infettavano altre madri attraverso l’allattamento. È una storia di intersezione di miserie femminili: di prostitute che non possono permettersi di crescere un figlio e di donne umili che vendono il latte per sopravvivere e si ammalano.
Le scelte di cui si fanno carico le donne sono spesso difficili sia perché costrette a seguire un triste destino – senza alcun supporto esterno – sia perché la gestione della maternità può costringere a contraddizioni interiori. Il vero abbandono non è quello delle madri che partoriscono, ma la lontananza dalle donne di un sistema di supporto alla marginalità.
Se si accetta questo sillogismo si comprende come un figlio, nella assoluta impossibilità di occuparsene, si consegna alla collettività – non è appropriato usare la locuzione abbandono - perché se ne prenda cura, perché, ora come due secoli fa, dietro queste storie si nasconde vulnerabilità. La fragilità costringe a scelte coraggiose come quella della madre del piccolo Enea, adagiato nella culla di un ospedale, e rappresentate dalle pagine dei giornali come un caso di abbandono di minore (Il piccolo Enea abbandonato il giorno di Pasqua dalla mamma nella Culla per la vita della clinica Mangiagalli – ANSA). Nel diritto penale l’abbandono del minore è un reato, art. 591 c.p., e nel diritto civile il termine minore abbandonato sta a significare una inadeguatezza genitoriale per mancanza di assistenza morale e materiale. Le parole hanno importanza, soprattutto quando si parla di diritti fondamentali delle persone. Quello che succede quando una donna decide di fare in modo che altri possano garantire al figlio una genitorialità più adeguata con l’intervento attento della giurisdizione minorile, è, con ogni evidenza, tutt’altra cosa che un abbandono. Che sia difficile da comprendere questa differenza di comportamenti si palesa in tutta la sua emblematica evidenza attraverso la lettura delle reazioni all’indomani della diffusione della notizia. Più di una voce ha esortato la mamma a ripensarci perché il bambino ha bisogno della vera madre.
La filiazione non coincide sempre con la discendenza o l'appartenenza genetica, l’identità personale, non necessariamente biologica, rappresenta una parte della vita familiare; il D.P.R. 396/2000 ha lanciato un salvagente a donne e nascituri per evitare il dramma delle morti alla nascita o di veri abbandoni senza controllo, è la conseguenza di una autodeterminazione più consapevole delle donne.
Gli argomenti – mamma ripensaci - stimolano sensi di colpa. La scelta del legislatore è quella di consentire alla madre una valutazione sulle proprie concrete possibilità, al contempo garantendo un futuro al bambino che ha messo al mondo. Misuriamo queste scelte senza stigma e paternalismo. L’uso delle culle termiche per i parti in anonimato è segno di civiltà, non deve essere enfatizzato dai media come qualcosa di straordinario o di eccezionale, ma dev’essere oggetto di argomento da diffondere e portare all’attenzione di tutti. Così come un po’ di orticaria assale quando si parla di diritto all’autodeterminazione delle donne, a proposito dell’interruzione volontaria di gravidanza e della surrogazione di maternità. Si dibatte, purtroppo, affinché scelte di autonomia e libertà siano ingabbiate in soluzioni alternative che preservano un traquillizzante ordine precostituito dal patriarcato.