L’Organizzazione mondiale della sanità ha annunciato la fine della pandemia: «Il Covid non è più una emergenza». In altre parole, esiste, circola ma non più con quel carattere apocalittico che ha tenuto per anni il mondo in scacco. Qualcuno dirà: ce l’abbiamo fatta, come auspicavano gli striscioni degli ottimisti appesi ai balconi nelle prime settimane di lockdown, poi, giustamente, ritirati in buon ordine.
In realtà, il Covid rischia di non passare mai. Non nel senso del contagio, della malattia, ma degli sconquassi lasciati nel ventre molle della società occidentale. Una società, per dirla con Massimo Fini, completamente incapace di fare i conti con i nodi tragici dell’esistenza (malattia, dolore, morte) e anzi abituata a rimuoverli. O, in alternativa, non riuscendoci, a rimuovere se stessa deportandosi in qualche Metaverso, appositamente igienizzato, in cui i virus non esistono o, se esistono, sono solo quelli del computer. Invece il Covid è esistito davvero con il suo carico di intubazioni, barelle e urne funerarie. E ora che sembra prendere l’uscita, ci accorgiamo che, in realtà, ha «sporcato» il mondo in modo irreversibile. Non è solo questione di strascichi di odio che pure esistono e sono duri a morire come rivela l’aggressione del no vax all’ex premier Giuseppe Conte. E nemmeno di paure. Il Covid non è la peste nera o la Spagnola: fantasmi, ombre dal passato, ormai la versione «sanitaria» dell’uomo nero che spaventa i bambini. È qualcosa di diverso. Almeno per tre motivi.
Innanzitutto, perché la sensazione è che la tragedia potrebbe ripetersi, ma non per la cattiveria di qualche irraggiungibile dio sanguinario, ma per gli errori e le follie dell’uomo. L’inchiesta aperta dall’amministrazione Biden sul laboratorio di Wuhan non è una teoria da complottisti. È un fatto. Così come lo è la possibilità di una guerra batteriologica o l’emersione di qualche virus giurassico dal permafrost che si scioglie (sempre per colpa nostra, ci dicono). L’uomo tende a dipingersi in modo benevolo, a nominarsi avvocato di sé, ma in realtà si conosce, sa di essere molto più pericoloso del Fato. E dunque il timore di un’altra catastrofe globale è legittimo. Sopratutto perché, nonostante i vaccini a tempo di record, non si è riusciti a prescindere da contromosse sociali molto elementari: mascherine obbligatorie e chiusure forzate. Nonché dalla promessa, non mantenuta, di potenziare una sanità che si è rivelata fragilissima perfino nelle sue eccellenze. Alla nostre latitudini, passata la tempesta, non abbiamo saputo far niente di meglio che riproporre l’autonomia differenziata sulle ceneri del già sepolto «nessuno si salva da solo».
Ma non è ancora il peggio. Il Covid ha fatto di più: ha certificato la stagione della squalifica del dissenso. Un tempo era il crimine ad essere patologico, come ci ricorda Michel Foucault, oggi è l’opinione altra. Non ci riferiamo certamente ai deliri «terrapiattisti» di microchip sottopelle o di cucchiaini che rimangono attaccati all’omero dopo la somministrazione del vaccino. Inqualificabili sciocchezze. Ma a chi, lecitamente, ha posto dei dubbi sui contratti Pfizer-Unione europea e sui possibili effetti di un farmaco preparato così in fretta. Nonché, per tornare al punto precedente, sull’opportunità di chiudere la nazione in casa. Obiezioni magari sbagliate, inutili o in malafede. E tuttavia, per contrastarle, si è preso a intervistare non i medici o i giuristi di segno opposto, ma gli psicologi, quasi l’obiezione fosse un lombrosiano segno di follia criminale. Il tutto mentre qualcuno reclamava «vagoni speciali» o «campi di sterminio» per i non vaccinati, molti dei quali, a loro volta, assaltavano le sedi dei sindacati.
Poco male (si fa per dire...) se questa follia fosse rimasta circoscritta al triennio pandemico. Invece è debordata, sporcando tutto. L’altro evento apocalittico precipitato sull’umanità già provata, cioè l’invasione russa dell’Ucraina, è stato affrontato con lo stesso piglio avvelenato, tra liste di proscrizione e rimozione di ogni analisi complessa. Niente domande, non c’è tempo. «Domina il pensiero incapace di concepire la complessità dei fenomeni», ammonisce Edgar Morin nel suo prezioso libretto Di Guerra in Guerra, ricordando come ogni procedere si sia fatto «meccanico». Un pensiero che, per paradosso, tende a creare odi tangibili, comportamenti criminali ma anche un bel po’ di superstizioni: dal «credere» nella Scienza, nel caso della pandemia, all’aver «fede» nel primato dell’Occidente e dei suoi valori, se parliamo di guerra. Ma la Scienza è anche quella che sosteneva che la lobotomia migliorasse il carattere, così come l’Occidente è quello dell’Iraq, dell’Afghanistan e delle due bombe atomiche sul Giappone.
Per il bene di entrambi, e soprattutto della prima, sarebbe il caso di tornare all’epoca in cui l’errore, così come la critica, era ammissibile ed anzi quasi una benedizione perché permetteva di far meglio la volta successiva - «la scienza procede per errori», Galileo dixit. Ma la pandemia non ha insegnato nulla da un lato (potenziare la sanità pubblica) e ha insegnato cose sbagliate dall’altro (trattare il dissenso come malattia mentale). L’emergenza sarà anche finita, ma il mondo s’è preso il long Covid. E la sensazione è che se lo trascinerà per un bel pezzo.