Spartiacque, i giorni dal 26 febbraio a oggi. Fuor di metafora, l’acqua si è «spartita» e ha travolto tante persone, donne, bambini, uomini morti annegati davanti alle nostre coste, davanti ai nostri occhi, non fosse stato buio. E secondo metafora, «spartiacque» perché questo naufragio avvenuto a Cutro, in Calabria, l’ennesimo, sembra aver segnato un prima e un poi nelle sensibilità collettive. C’è qualcosa di particolarmente atroce in ciò che è accaduto di fronte alla spiaggia di Steccato di Cutro, dove l’avverbio «particolarmente» non significa distinzione (tutte le tragedie sono parimenti tragedie), ma un punto di contatto con la sensibilità generale diverso da come è stato altre volte, in passato – passato più e meno recente. L’onda di reazione e di dolore è stata più alta e intensa di altre volte. Forse perché tutto è accaduto più vicino – per immane tragedia del destino, a pochi metri dalla riva. Perché i corpi riversatisi sulla battigia e recuperati dai soccorritori sono stati tanti, tanti insieme, ammassati gli uni sugli altri. Perché di quei soccorritori abbiamo ripetute volte ascoltato le testimonianze, visto nelle iridi degli occhi i loro sguardi scioccati, seguito il racconto in presa diretta di un trauma che non è difficile immaginare li seguirà, ancora e ancora. Naufragio diverso da altri, perché le grida di chi stava annegando le abbiamo ascoltate dal vero, riprodotte da televisioni, radio, social, e sono grida che chiunque abbia coscienza si porterà nelle orecchie sempre. E ancora, perché più che mai questa volta, questa catastrofe umana abbiamo sentito e compreso che si poteva e si doveva evitare.
Nel 1996, quando avvenne il più terribile naufragio del Mediterraneo del dopoguerra (trecento persone morirono al largo di Lampedusa), il giornalista e scrittore Giovanni Maria Bellu decise di rompere la cortina di agghiacciante, siderale silenzio e scrisse un libro bellissimo e molto importante, I fantasmi di Portopalo. Quasi trent’anni sono passati da allora, naufragi continuano a essercene tanti, troppi, sempre troppi. Se non che non sono fantasmi quelli che ci sono morti di fronte a Steccato di Cutro e dei quali abbiamo ascoltate, atroci, le grida prima che finissero risucchiati dai flutti. Niente fantasmi, invece bambini e donne e uomini dei quali man mano andiamo conoscendo le storie. Volti, nomi, destini che su quel caicco pericolosissimo e fragilissimo hanno trovato la fine. Cosa cambia, tanto sapere, essere informati? Non cambia, se non che in questi giorni «spartiacque» abbiamo assistito a qualcosa di diverso in termini di reazione umana, nostrana. Con le assi di legno frantumato di quel maledetto caicco è stato costruito un crocifisso, portato in processione sulla spiaggia come in una contemporanea Passione.
Peluche dei bambini, in analogia con i giocattoli recuperati dal naufragio, sono stati lanciati sulle auto governative. Scene ed elementi visivamente dirompenti, segni di un coinvolgimento alto, collettivo. L’onda lunga di un dolore immane si è alzata. Più di altre volte. Una profonda tristezza prossima alla disperazione si è impadronita di tanti, tantissimi cittadini di tutta Italia. Senza retorica, verrebbe da augurarsi che quest’onda non si abbassi; che nulla della tragedia di questi ultimi giorni sbiadisca nelle memorie, e prima ancora nelle coscienze. Che un seme di consapevolezza in più si sia depositato nella mente dei molti che hanno sofferto in questi giorni per questa grande sciagura sulle rotte della migrazione. E d’altra parte, l’empatia che si è risvegliata, più di prima, più di molte altre volte, perché duri, perché si depositi nelle coscienze di tanti e resti sveglia, come un’antenna sempre alta, sempre ricettiva, bisogna che trovi un equilibrio.
L’immedesimazione eccessiva, come quella che in questi giorni in tanti si è sentita, non dura perché il carico emotivo è eccessivo e non lo si regge. Con lucidità comprendere le tragedie, battersi per la giustizia, impegnarsi per difendere la vita umana e ogni legge e pratica e azione che ne regoli la tutela. Soffrendo con gli altri ma con lucidità, con empatia vera, quella che guarda l’altro e lo sente e soffre con lui, ma sempre consapevole che è nell’equilibrio che le cose durano, e agiscono, e smuovono.