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Sì allo «ius scholae», la cittadinanza è questione di valori

 
Ennio Triggiani

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Ennio Triggiani

Sì allo «ius scholae», la cittadinanza è questione di valori

«Ius scholae», la discussione nelle piazze d'Italia

Solo in Italia una conquista di civiltà, come il diritto all'educazione, poteva essere sottoposta al fuoco della battaglia elettoralistica

Giovedì 07 Luglio 2022, 15:00

Solo in Italia una conquista di civiltà, qual è il riconoscimento del cosiddetto «ius scholae», poteva essere sottoposta al fuoco incrociato di una battaglia di retroguardia frutto di interessi elettorali deplorevoli e aprioristicamente ideologici. Non è infatti pensabile, in democrazie serie, che si debba ostacolare la richiesta di cittadinanza per il minore straniero che sia nato o arrivato in Italia prima di aver compiuto 12 anni e porti a termine un  percorso scolastico di 5 anni. Attualmente le leggi che regolano il diritto alla cittadinanza dipendono principalmente dal cosiddetto «ius  sanguinis» per cui, al fine di ottenerla automaticamente, occorre che uno dei due genitori ne sia già in possesso.

Tale riconoscimento, inoltre, non presenta limite generazionale purché si dimostri con certificati di registro civile la linea diretta di discendenza con l’antenato italiano (chiamato «dante causa») fino al richiedente. Per quest’ultima ragione diviene cittadino chi spesso non ha mai messo piede nel nostro Paese non conosce una parola della nostra lingua. La ragazza e il ragazzo che, invece, da noi risiedono e magari parlano la nostra lingua meglio di molti loro coetanei «perfetti» italiani devono attendere il compimento dei 18 anni per attivare il relativo procedimento che è abbastanza lungo, salvo a volte scorciatoie legate a meriti sportivi.

La Conferenza Episcopale Italiana, invece, ha giustamente evidenziato la necessità di usare lo strumento della cittadinanza per rendere partecipi e protagonisti di questa necessaria e non più rinviabile trasformazione le persone in attesa di essere riconosciute cittadini e che la constatazione di una società profondamente diversa rispetto al passato debba prevalere sulle polemiche di natura ideologica A sua volta, in molti pregevoli scritti Giovanni Moro ha evidenziato come la realtà odierna offra il superamento della «comunità di origine» attraverso una «comunità di destino» e che l’incontro tra stranieri e autoctoni è sempre un processo di reciproca contaminazione e trasformazione. Il che, peraltro, non ha bisogno di decisioni politiche per attuarsi perché avviene comunque in quanto l’Italia vive profonde dinamiche di trasformazione della cittadinanza, intesa come associazione tra eguali.

Esiste, infine, un’ulteriore considerazione. La cittadinanza italiana, come quella di ogni altro Stato membro dell’Unione, produce quale automatica conseguenza l’attribuzione di una seconda cittadinanza, quella europea, fonte di concreti diritti quali la libera circolazione, l’elettorato attivo e passivo nel Parlamento europeo e nelle elezioni amministrative in funzione della residenza, la protezione diplomatica e consolare quando si è in Paesi nei quali non esiste una nostra Ambasciata. In realtà, l’evoluzione di collocazione e ruolo del cittadino europeo nel sistema dell’Unione evidenzia sempre più il carattere innovativo legato in particolare alla progressiva separazione dei concetti di nazionalità e cittadinanza che siamo abituati a ritenere inscindibili e che invece sono uniti solo sulla base di una più recente contingenza storica. Grazie all’istituzione della cittadinanza europea l’appartenenza ad un territorio, ad una comunità e ad una cultura definiti da confini nazionali è stata per la prima volta riferita anche ad un’entità di tipo sovranazionale, facendo formalmente venir meno la nazionalità quale connotazione ideologica esclusiva a base del concetto di cittadinanza. I cittadini europei non possono che avere nazionalità differenti, non essendo unificati su base etnica; ma, in un contesto di lenta pur se progressiva «compressione» della sfera propria dello Stato nazionale, elementi unificanti divengono allora i comuni «valori fondativi» ed il comune «progetto». Si diventa, cioè, parti di un sistema composito di diritti, doveri e lealtà politiche come presupposto decisivo per la democratizzazione dell’Europa.

La cittadinanza dell’Ue è quindi espressione, per quanto a livello embrionale, di un popolo europeo unificato non più dai tradizionali criteri distintivi di quello nazionale - via via più flebili nel mondo globalizzato - ma dal comune sentire dei valori fondamentali (democrazia, libertà, dignità, solidarietà) quali già iscritti solennemente nel Trattato di Lisbona e nella Carta di Nizza e divenuti, fra l’altro, la calamita politico-culturale verso i Paesi già appartenenti all’Unione Sovietica. Pertanto, la volontà di restringere la possibilità di accesso alla cittadinanza nazionale a chi, anche attraverso l’educazione scolastica quale perno centrale di un percorso di integrazione, si è formato su tali valori ha quale ulteriore e diretta conseguenza la negazione dell’accesso alla cittadinanza europea; questa si fonda invece su presupposti sicuramente lontani da vecchie concezioni di chiusura mentale e geografica figlie di tempi lontani e superati.

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