Tra gli effetti collaterali, e a mio avviso nefasti, del successo elettorale del M5S, c’è stata l’emersione del tema della competenza come questione politica. La nuova formazione non aveva una classe dirigente di tipo tradizionale, fatta di persone con una cultura politica. Al contrario, i dirigenti del Movimento si facevano un vanto di essere persone prive di esperienza e non condizionate dalle ideologie («né di destra né di sinistra» dicevano). Questo atteggiamento non era, in realtà, una novità.
Almeno dalla fine degli anni Novanta, quando il compromesso politico che faceva da sfondo alla costituzione repubblicana entra definitivamente in crisi, i motivi del «nuovo» erano stati spesso declinati nel senso di un rigetto dell’idea che ci fosse qualcosa di buono in una politica professionale (nel senso di Max Weber). Ma questo nuovismo si intrecciava ancora, per esempio in Forza Italia e nella Lega, con elementi che si riallacciavano alle culture politiche del Novecento: il liberalismo, il federalismo. Soltanto con il M5S il legame col passato viene reciso del tutto. L’idea che il parlamento fosse una «scatola di sardine» da aprire per mostrarne il contenuto era l’espressione più efficace (e più ingenua) di questa novità. Alla sfida del M5S, che sembrava in quel momento assumere un valore esistenziale, una parte della classe dirigente del nostro paese ha reagito attaccando quello che si vedeva (in qualche misura correttamente) come il punto debole della nuova formazione politica: l’impreparazione.
In prima fila nel lanciare l’offensiva è la stampa centrista, con accenti diversi, seguita ben presto da buona parte della leadership del Partito democratico, che negli anni della segreteria Renzi fa del tema della competenza contrapposta all’incompetenza (se non addirittura all’ignoranza) l’asse portante della propria iniziativa sul piano della comunicazione. Una scelta comprensibile, i pentastellati insidiavano l’egemonia del Pd in una parte del suo elettorato di riferimento, ma ben presto rivelatasi controproducente. A pensarci bene, la cosa non è sorprendente. In una società che ha ormai assimilato l’idea che il consumatore è sovrano, e che l’elettore non è altro che un tipo di consumatore, è arduo sostenere improvvisamente che egli debba accettare senza discutere ciò che gli viene detto da un esperto, specie quando il risultato di questa scelta appare incompatibile con gli interessi immediati di chi deve dare il proprio consenso a una certa linea politica. Oltretutto, la scelta di fare della competenza un criterio politico dirimente finiva per erodere la stessa pretesa di autorità dei partiti, che infatti si trovarono ben presto costretti a sostenere governi guidati e composti in parte da tecnocrati. Convinti di tagliare il ramo su cui sedevano i Cinque Stelle, i difensori politici della competenza correvano il rischio di cadere insieme a loro. Negli ultimi tempi c’è stato un timido tentativo di riabilitare la politica, con le sue specifiche competenze, rispetto ai saperi non-politici (un oggetto che meriterebbe un approfondimento critico peraltro, almeno per discipline come l’economia e il diritto, che con la politica hanno un rapporto piuttosto intimo), ma senza invertire la tendenza che si era ormai affermata. Anche perché una parte dell’opinione pubblica si era affezionata all’idea del «governo dei competenti».
Che tutto questo non abbia fatto bene allo stato del dibattito pubblico, e quindi della democrazia, mi pare fuori discussione. Lo abbiamo sperimentato in occasione della pandemia, e lo stiamo sperimentando nuovamente ora con la guerra in Ucraina. Invece di entrare nel merito delle opinioni espresse da coloro con cui ci si trova in disaccordo, si cerca di metterne in discussione le credenziali, affermando che un filologo o un fisico non dovrebbero pronunciarsi sulla politica estera, come se ragionare di politica fosse qualcosa di paragonabile a dimostrare un teorema o a fare una diagnosi clinica (due attività peraltro molto diverse, essendo la seconda suscettibile a disaccordi anche tra persone dotate delle credenziali rilevanti). Tutto questo, in presenza di un sistema dell’informazione che, in larga misura per ragioni economiche (le competenze costano, e la precarizzazione del lavoro non ne favorisce la formazione), ha sostanzialmente rinunciato a fare da filtro.
Chi ci perde in questa situazione non sono i demagoghi, e neppure gli esperti, presunti o reali, in buona fede o in cerca di visibilità, ma la qualità della nostra democrazia. Partiti privi di cultura politica, scarso pluralismo dell’informazione, e la supina accettazione di un atteggiamento anti-politico che finisce per diventare anti-democratico ne stanno aggravando la crisi. Se si insiste con la cura sbagliata, c’è il serio rischio che il paziente non sopravviva.