«Quelle gru sono nate per reggere al maltempo. Lui si sentiva sicuro, lì dentro». Se li guardi da molto lontano, con i colori del tramonto che pervadono il cielo, questi pezzi d’acciaio pensati per spostare quintali sembrano cigni in piedi, fieri guardiani dello specchio d’acqua sui quali danzano. Le navi arrivano in porto cariche di carbon fossile e i gruisti devono svuotare le stive, scaricare la materia prima che alimenta i forni. È̀ una parte fondamentale della produzione. In fabbrica ognuno ha il suo compito e tutti sono indispensabili ma ci sono reparti più̀ pericolosi di altri. Salire a 70 metri d’altezza, con il sole, con il vento o con la pioggia, di notte e di giorno sembra facile, ma non lo è. Francesco Zaccaria amava il suo lavoro. Dalla cabina della gru pende una pinza. Il gruista deve portare la macchina sulla perpendicolare della stiva, senza vedere bene dove va a finire l’aggancio. Bisogna essere precisi e veloci nel gestire i manipolatori. Zaccaria dentro quella cabina si sentiva un supereroe, come in un videogioco, manovrava il suo joystick e non poteva sbagliare né essere lento. Correva, Francesco, correva forte, perché dalla sua mano e da quella dei gruisti come lui dipende l’andamento della produzione. Da solo, tutto il giorno sospeso in aria, nella sua cabina d’acciaio appesa a un gancio, Francesco guardava tutti dall’alto, Taranto, le macchine, gli umani e soprattutto il Siderurgico. Solo le ciminiere erano più alte di lui. Ma a quelle dava le spalle, perché́ Francesco lavorava guardando il mare e l’orizzonte. «Io lo so cosa ha pensato mio figlio un attimo prima di morire». Papà Amedeo me lo dice, fortunatamente, senza attendere la mia domanda imbarazzata: «Ha pensato... è finita! Non ho scampo, sono morto».
Francesco Zaccaria pensava che la sua cabina fosse il posto migliore per ripararsi dalla tempesta quel 28 novembre del 2012 e invece è morto seppellito lì dentro, in fondo al mare, a 27 metri di profondità̀. Ci sono voluti due giorni per trovarlo. All’inizio l’hanno cercato nelle campagne limitrofe, sugli alberi. I compagni hanno perlustrato ogni millimetro della zona industriale urlando il suo nome, sperando che rispondesse magari ferito, ma vivo. E invece Francesco, dopo l'impatto dell’uragano che ha scardinato la sua cabina d’acciaio, è precipitato in fondo al mare. «Spero sia morto sul colpo». Cos’altro può̀ augurarsi un padre a cui è stato strappato un figlio? Aveva 29 anni. Simone Piergianni era sul DM8 il giorno in cui è morto Francesco, la sua era la gru più nuova, l’unica infatti che ha retto all’uragano. Mi dà appuntamento nella piazza di Grottaglie, in provincia di Taranto, dove vive ed è nato. «Ho accettato di incontrarti solo perché me l’ha chiesto Amedeo. Non mi piace ricordare quel giorno.» Anche a distanza di anni la memoria fa male.
Simone, come Francesco, quando comincia questo lavoro è giovanissimo, non ha paura: «Gli anziani però ci mettevano in guardia: quando si alzava il vento, sopra la gru si ballava. Non ci pensare due volte» dicevano «vai a passerella. E io ogni volta che sentivo il fischio del vento pensavo a loro e facevo esattamente come mi avevano detto». La mattina del 28 novembre Francesco arriva dopo Simone. Simone dunque sale prima di tutti: «Ma appena arrivo su, sento che il vento fischia, è forte: 70, 80, 90 chilometri orari. Non riuscivo a fare niente». Sono circa le otto e mezza del mattino. «All’epoca anche se il vento soffiava forte ci dicevano di ripristinare l'anemometro e andare avanti». Il vento soffia sempre più̀ forte. «Comincio a sentire dei rumori strani. Il cielo d’improvviso si fa nero, si mette a piovere a dirotto». Nessuno dà ordine ai gruisti di scendere. «Ma io per la prima volta avevo paura». E qui Simone inizia un racconto impressionante, tutto d’un fiato senza fermarsi. In silenzio lo ascolto e di colpo mi porta con lui a 70 metri d’altezza. «Ho sentito un rumore fortissimo, il vento ha iniziato a prendere a schiaffi la gru: boom, boom, boom! La lamiera sotto i miei piedi si è staccata. Mi sono girato e ho visto la nave che si stava muovendo. Come fa una nave ormeggiata a muoversi? Non l’ho capito subito: era il tornado che nel vortice stava tirando a sé l'imbarcazione. Ho iniziato a piangere.» Piange anche adesso Simone, piange composto dietro gli occhiali, soffre mentre ripercorre quei tragici istanti. Piango anch’io con lui. Sono in alto, sospesa, al centro della tempesta. «Quando è arrivata la botta più̀ forte, poco prima di perdere i sensi ho rivisto tutta la mia vita in un flash: mia moglie, i miei genitori. Poi sono svenuto. Scusa Valentina, ho bisogno di respirare».
Il 31 maggio 2021 tutti gli indagati per la morte di Zaccaria sono stati condannati. È solo una sentenza di primo grado, è giusto ricordarlo. Questo libro va in stampa prima della chiusura definitiva del processo, e fino ad allora tutti sono innocenti. Ma ciò̀ che è stato stabilito nella perizia sono dati inconfutabili, poi si può̀ discutere se sia un capoarea, un capoturno, un tecnico, un dirigente a portare la colpa di non aver controllato, di non aver sospeso la produzione nel giorno dell’uragano. O se invece la colpa vada ricercata a piani pì alti. Ma Francesco non è morto solo per colpa del vento.
La mattina della sentenza Amedeo si è seduto da solo in ultima fila, lontano da tutti, anche da me. La lettura del dispositivo di condanna è̀ durata più̀ di due ore. Quando il presidente ha finito e la Corte è uscita gli ho chiesto se era soddisfatto. «Sono stati tutti condannati, è vero. Ma a pene minime. Nessuno andrà̀ in carcere». E tu invece avresti voluto pene più̀ severe? «Avrei voluto che tra gli imputati ci fossero altri nomi, colpevoli più di peso, che hanno avuto la responsabilità di scelte industriali e di investimenti su sicurezza e manutenzione non fatti. E avrei voluto anche che i vertici degli enti istituzionali preposti al controllo dei privati rispondessero di autorizzazioni e documenti di idoneità̀ rilasciati e che invece non c’era motivo fossero firmati». Quindi ti sei pentito della tua lunga battaglia? «Assolutamente no, rifarei tutto». Una condanna non ti restituisce un figlio. Un processo però ̀ almeno gli rende onore, visto che all’inizio la colpa della morte di Francesco per tutti era solo del vento.
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Estratto dal libro «Il cielo oltre le polveri» (edito da Solferino 2022)