di MICHELE MIRABELLA
Il Presidente della nostra Repubblica, sì «nostra», ha pronunciato, per Capodanno, un discorso utile, sobrio, prezioso. Il nostro Presidente ha studiato oratoria? Forse. Certo ha dimostrato di conoscere la sobrietà che ai Latini ispirò la definizione dell’oratore: «Vir bonus et dicendi peritus»: «Un uomo onesto, esperto nel parlare». Bonus, come molti ricordano, nel latino di Catone, stava, appunto per retto, onesto, senza ombre. Più tardi la definizione fu ripresa da Seneca e Quintiliano i quali intendevano alludere anche alla concisione, all’eleganza senza retorica.
E la sobrietà del presidente Mattarella che elogio entusiasticamente, si è manifestata nel ricordare, per esempio, che: «Le elezioni aprono, come sempre, una pagina bianca: a scriverla saranno gli elettori e, successivamente, i partiti e il Parlamento. A loro sono affidate le nostre speranze e le nostre attese». E prosegue incoraggiando gli Italiani ad andare a votare.
Il Presidente ha ritenuto superfluo, saggiamente, incoraggiare gli Italiani a candidarsi. Questa è altra cosa. E torniamo alla civiltà del Latino che individuava il «Vir bonus» come una scelta opportuna per individuare il cittadino da candidare alle mansioni pubbliche e qualcun altro ritenne di precisare che costui, se fosse stato tentato dal farlo, avrebbe dovuto sapere che anche sua moglie era tenuta all’irreprensibilità. Si dice essere stato Giulio Cesare a ribadirlo quando rifiutò, in tribunale, di colpevolizzare la pur fedifraga consorte, assolvendola da ogni sospetto, non potendo concepirsi che neanche alla lontana si potesse sporcare la toga del «candidato» alla politica. Sì, la parola «candidato» deriva proprio del termine candido, immacolato, cioè. L’importante è, per gli antichi, la credibilità del personaggio e, in tempi di comunicazione ravvicinata e di sobrietà dei mezzi di informazione, l’attendibilità. Questo mi ha suggerito e ricordato la sera dell’ultimo dell’anno il presidente Mattarella.
Il nostro Presidente, nella sua compunta eleganza si esprime senza affettazioni e fornisce un esempio da tenere in conto nella prossima campagna elettorale: «Mi auguro un'ampia partecipazione al voto e che nessuno rinunzi al diritto di concorrere a decidere le sorti del nostro Paese. Ho fiducia nella partecipazione dei giovani nati nel 1999 che voteranno per la prima volta (…) Nell'anno che si apre ricorderemo il centenario della vittoria nella Grande guerra e la fine delle immani sofferenze provocate da quel conflitto. In questi mesi di un secolo fa i diciottenni di allora - i ragazzi del '99 - vennero mandati in guerra, nelle trincee. Molti vi morirono. Oggi i nostri diciottenni vanno al voto, protagonisti della vita democratica».
Commovente. A loro, ai diciottenni, Il Presidente sembra affettuosamente ammiccare in quell’invito nascosto in una constatazione, a rispettare il diritto-dovere a votare per asseverare la democrazia. E la libertà. Un esempio lucido di prosa politica e di oratoria che si culmina in una frase che proprio ai più giovani sembra rivolta: «Non possiamo vivere nella trappola di un eterno presente, quasi in una sospensione del tempo, che ignora il passato e oscura l'avvenire, così deformando il rapporto con la realtà».
Sarebbe utile suggerire lo studio di queste pagine, sono reperibili nel sistema della rete, proprio ai cittadini più giovani perché sono un esempio di chiarezza e concisione che sarebbe piaciuto agli antichi proprio perché, per loro queste qualità furono basilari, per individuare le persone oneste, oltre che esperte nel parlare, nell’esprimersi. E senza l’aiuto della volgarità che molti considerano efficace.
Un tempo, di chi usava parolacce, si diceva: parla «come un carrettiere» con la variante «come uno scaricatore di porto» escogitata dalle mamme abitanti in città foranee. Non ho praticato carrettieri, a parte compare Alfio che, in tutta Cavalleria rusticana, non canta mai una sola volgarità, ma ho conosciuto un onesto portuale, che, disse una volta «cacchio», perché era proprio oberato. La volgarità, invece, ramifica nella politica e nelle conversazioni: possiamo documentarci grazie al resoconto delle intercettazioni, in un sottogenere della cronaca politica in cui l’immondizia linguistica è invadente e nauseante.
Dubito che una campagna elettorale si giovi della brutalità del linguaggio corrivo e volgare e dubito che giovi al gioco politico, salvo che non si ritenga di avere il proprio interlocutore ideale nella suburra di una metropoli planetaria cui nessun oratore potrebbe rivolgersi pena l’annichilimento nella volgarità.
«Romani, amici, concittadini. Prestatemi orecchio», dice il nobile Antonio appressandosi al cadavere di Cesare ai Rostri per arringare la folla ondivaga dei Quiriti nel tentativo (riuscito) di vanificare la congiura di Bruto e Cassio. La celebre orazione, cavallo di battaglia delle audizioni degli attori debuttanti, è un esempio di grande teatro e di oratoria politica. Shakespeare conosceva i dettami della scuola di eloquenza alessandrina? Si direbbe di sì. Ma quel che importa è la qualità della prosa e della tecnica oratoria. Invito i politici contendenti nella prossima campagna elettorale a una full immersion nell’orazione di Antonio. Nel loro assiduo litigare ho sentito usare, con disprezzo, la locuzione «il teatrino della politica». Il tentativo è di screditare la politica comparandola al teatro. Ora va ricordato a quei tangheri che il teatro, anche quello piccolo delle marionette o dei burattini, è una cosa bella e serissima e che, se mai, si potrebbe tra la gente orgogliosissima di quell’arte, offendersi a vicenda dandosi del ciarliero politicante. Il caso somiglia all’uso del termine buffone usato per insultare. I buffoni sono gente buona e generosa, lavoratori benemeriti che si prodigano per ingentilire il corruccio degli adulti e far sorridere i bambini, non sono imbroglioni in mala fede. Vestono la giubba, non la cambiano a ogni mutar del vento e lo fanno per tirare a campare onestamente non per ingannare alcuno tra l’onorevole pubblico. O Romani, amici, concittadini.