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Quella «cultura» che cancella l’Odissea, Mozart e Colombo

 
Michele Partipilo

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Michele Partipilo

Quella «cultura» che cancella l’Odissea, Mozart e Colombo

È difficile in questi giorni non parlare di green pass, contagi e varianti

Domenica 18 Luglio 2021, 16:04

È difficile in questi giorni non parlare di green pass, contagi e varianti. La minaccia permanente rappresentata dal Covid carica di ansia giornate che pensavamo sarebbero trascorse più serene.

Giornate più faticose, più sudate, ma finalmente con la prospettiva di tornare a una qualche normalità. Ciò che pensavamo di esserci lasciato alle spalle costituisce invece ancora il presente e, purtroppo, sarà anche il futuro, almeno quello immediato.

Non si capisce se sia solo una reazione ai disagi prodotti dalla pandemia, ma diventa sempre più forte il desiderio e quindi la richiesta di mettere da parte il passato. L’obiettivo strisciante è diventato dimenticare, cui fa riscontro il desiderio di vivere ogni giorno come se fosse sempre il giorno 1 dell’esistenza di ciascuno.

È una delle varianti della cosiddetta «cultura della cancellazione», cancel culture nella denominazione originaria diffusa su Twitter da una comunità afroamericana. Il concetto non solo spaventa, ma appare con un ossimoro. La cultura è accumulazione e stratificazione di conoscenze ed esperienze: estromettere qualcuno o qualcosa da essa significa amputarne un pezzo, privarla di una parte, non importa quanto sia ampia e importante questa parte.

Nella definizione originaria la cancel culture sta a indicare una sorta di avversione e ostracismo verso qualcuno o qualcosa, fino al punto da rimuoverli o estrometterli dal posto di lavoro o da un contesto sociale. Un concetto che si è rapidamente esteso evolvendosi in una moderna iconoclastia che vuole abbattere le statue di Cristoforo Colombo o distruggere capolavori della letteratura come l’Odissea o della musica come la produzione mozartiana. Sono posizioni estreme, ma costituiscono la classica punta dell’iceberg. Sotto il pelo dell’acqua si nasconde la parte più vasta e composita di soggetti che in realtà vivono un conflitto con il passato.

Le conseguenze di una simile «cultura» si ripercuotono in maniera subdola sulla nostra vita quotidiana. Gli esempi sono numerosi, a cominciare dallo scarso rispetto per la storia, disciplina sempre più maltrattata nelle scuole, meno studiata nelle università e oggetto dei revisionismi più indecenti.

Operazioni talvolta mascherate sotto la categoria del politicamente corretto, che è un altro subdolo modo di alterare i fatti, di edulcorare la realtà, insomma di creare tante possibili «verità», per cui alla fine sembra che tutti abbiano ragione e non si capisce più qual è il bene e quale il male. La nostra vita va assomigliando a un talk show televisivo dove ciascuno dice la sua, purché stia composto e nei tempi, e dove non c’è mai una verità vera che emerga. E se alla fine qualcuno avanza la pretesa di dirci che stiamo sbagliando, apriti cielo. Il dogma dell’infallibilità è la cifra delle nostre relazioni.

Il paradosso di tali comportamenti è che si creano nuove fragilità. Nascondere o camuffare la realtà crea infatti la convinzione che siamo soggetti forti, consapevoli, potenti. È vero invece il contrario, basti pensare alle esplosioni di violenza in contesti che un tempo sarebbero stati definiti «normali». Il marito che uccide la moglie davanti ai figli al termine di una banale lite, una scena agghiacciante e frequente che ormai non fa più notizia. Il numero esagerato di questi casi è la spia che qualcosa si è rotto non solo nella società, ma nella testa di ciascuno. È chiaro che se il principio dominante è quello del marchese del Grillo («Io so io e voi nun siete un c…») non c’è spazio per il dialogo, per le mediazioni, per la pace sociale. L’idea della disintermediazione a ogni livello, fino al rapporto diretto fra eletto ed elettore, si è tradotta in prassi costante e accettata: ogni politico appena alzato al mattino lancia il suo tweet e apre una nuova giornata di chat. Il solo fatto che si partecipi alla discussione e che si ottengano repliche – quasi mai risposte – è rassicurante e concentra nuovamente l’attenzione sull’oggi.

È stato spesso denunciato come i nostri tempi mostrino un deficit etico importante. È vero, come è vero che una delle cause vada ricercata nel progressivo venir meno del peso spirituale e religioso della Chiesa cattolica. Ma questa più che una causa potrebbe essere solo una sorta di effetto collaterale. Se l’etica si costruisce attraverso una serie di scelte che un uomo compie rispetto a dati principi, vuol dire che non facciamo scelte o non siamo più in grado di farle.

E non siamo più in grado di scegliere perché abbiamo smarrito i punti di riferimento, meglio, tutto ci appare come possibile riferimento: in campo affettivo, culturale, politico, religioso. L’obiettivo non dichiarato è quello di riuscire finalmente a superare la fatica di vivere. Un modo abbastanza semplice ed efficace per farlo è fingere che non ci sia un passato, che ciò che vale è ciò che è qui in questo momento sotto i miei occhi.

Così l’attualità diventa il metro di tutte le cose, il presente l’unica dimensione possibile. Lo testimonia anche la nostra maltrattata lingua: usiamo quasi esclusivamente il tempo presente, talvolta il passato prossimo, mai il passato remoto. Tempo impegnativo che richiede memoria e conoscenza. Non è solo moda o vezzo giornalistico, il presente è il mare in cui bagnarsi e uscire rinnovati ogni giorno. Per farci aiutare in questo camuffamento linguistico ricorriamo sempre più agli anglismi, che non hanno verbo e dunque sono sospesi nel tempo, non hanno in sé un’età.

I disastri e i lutti provocati dalla pandemia non possiamo dimenticarli. Per quanto si vada diffondendo, la cultura della cancellazione non può applicarsi a un passato che abbiamo vissuto tutti come un macigno sulle nostre esistenze. Oggi più che mai è importante non cancellare nulla, non estromettere nessuno, ma far tesoro di ciò che abbiamo vissuto per evitare di ripetere gli stessi errori.

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