Un rumore percuote l’Italia. A dirla con il Manzoni, si potrebbe solfeggiare: «Dagli atri muscosi, dai fori cadenti, dai boschi, dall’arse fucine stridenti, dai solchi bagnati di servo sudor, un volgo disperso repente si desta, intende l’orecchio, solleva la testa percosso da novo crescente romor».
Come tutti i reduci delle antiche scuole ginnasiali ricorderanno, questo è l’incipit del Coro dell’Adelchi, scritto subito dopo il fallimento dei moti del 1821. Il Manzoni respinge l’idea che un popolo che intenda liberarsi del giogo dell’occupazione straniera e della servitù che ne deriva, possa limitarsi a cambiare padrone. Nel caso in fonte si tratta dell’Italia affranta e dei Franchi da mettere al posto dei Longobardi.
Agli esami di maturità avemmo modo di spiegare che i destini di una nazione debbano essere disegnati dal suo popolo, decisi dalle sue libere assemblee e modellati sulla sua storia.
Il suono che fa raccapricciare il volgo manzoniano è suon di guerra non nostra, ma dagli Italiani subita. È altro, invece, il suono cui mi riferisco e altro il patema collettivo in cui stiamo, noi Italiani di due secoli dopo. Vediamo. È quello di cavi di acciaio tesi allo spasimo, di aggeggi tecnologici la cui ferraglia, priva di indispensabili attenzioni e prudente manovra, ha causato morte e distruzione in un alpeggio italiano frequentato da italiani e viaggiatori nella nostra terra, affratellati dall’ospitalità e non più arruolati in milizie guerrafondaie.
La prosa che mi ha tentato e in cui mi sono avventurato mi è servita a sedare l’indignazione e ne ho affrontato il piglio retorico perché sono veramente arrabbiato. Non mi permetterò di azzardare troppe analogie tra l’Italia di quel medioevo corrucciato e questa patria nostra di oggi. Oltre tutto, la manovra sembrerebbe un gioco di società. Ma qualcosa, c’è, diamine, che mi allarma: mi tormenta quel suono sinistro di ferri logorati, le catene stridenti di un affanno irresistibile, quello di dover guadagnare denaro. A tutti costi. Anche mettendo ad altissimo repentaglio vite umane.
Quel suono è la squilla (direbbe il Manzoni) di un assalto senza scrupoli all’incasso che rischia di diffondersi in tutto il paese stanco di vigilie, di rinunce, esausto per la penuria, privato di guadagni, salari, stipendi. Tutto vero: ma non deve, il momento del timido sollievo, di quella, come dice qualche gazzettiere, «luce in fondo al tunnel» (metafora assi poco manzoniana e, francamente, brutta), trasformarsi in una ressa all’esagerazione del consumismo.
Questa si potrebbe facilmente trasformare nell’assalto al «Forno delle grucce». L’esito è noto. Capisco che sia sempre meglio e desiderabile di un lazzaretto, ma la saggezza dovrebbe prevalere, la moderazione è sempre saggezza, ma diventa genialità se la si usa proprio quando si è stremati.
Il suono sinistro di quella funivia usurata e rovinosa dovrebbe avvertirci che è il momento della moderazione spontanea, non imposta dal terrore, ma scelta spontaneamente con riflessione autentica e meditata sulle misure di saggezza collettiva che possono rendere più difficile, molto più difficile, un’altra strage, di un’altra pandemia.
Ma gli «atri muscosi e i fori cadenti» resteranno sempre muscosi e cadenti? Potrà dipendere da noi, dai cittadini che decideranno di essere custodi delle città, di impedire la barbarie del traffico folle e disordinato reso ancora più pericoloso dall’uso scriteriato e demenziale dei monopattini e dei «bravi» che li utilizzano senza alcun rispetto per alcuna legge. Se si mescola il rumore delle nostre città allo stridore di officine illegali, ancorché dislocate in paradisi delle nostre montagne, il caos primeggerà invitto. «Invitto» lo avrebbe detto D’Annunzio più che Manzoni. Lo ammetto.
Gli atri muscosi e fori cadenti non vanno, poi, oltraggiati dai graffiti stupidi, volgari, maledetti che deturpano ogni muro delle città, vanno restaurati e offerti ai turisti che impareranno che gli Italiani sanno addirittura essere educati.
Girando per Bari, sì, sono tornato, dopo otto mesi, meditando ho passeggiato per la città che mi è cara. E, girando per Bari, dicevo, ho visto un orrore di scritte, sconcezze, deturpazioni di muri, muraglie, case, palazzi, un orrore che si sparge a dismisura per chilometri urbani.
È talmente orribile quel graffitismo idiota che sembra far rumore, ancora una volta il rumore, lo striduo allarme che l’egoismo imbecille ci invade senza il controllo indispensabile, se non della coscienza collettiva, almeno di Padre Cristoforo munito di randello benedetto.
Ed è lo stesso egoismo che accantona ogni prudenza relegandola nell’armamentario del paternalismo debole degli onesti che si barricano tremanti nelle case o nei «solchi bagnati di servo sudor».
Mi dicono che il nostro sindaco giri per la città per vigilare, rendersi conto, ammonire. Passeggiando, di sera, come un cittadino qualsiasi. Mi dicono che «preghi» i suoi concittadini di essere prudenti, saggi, altruisti. Mi rincuora la figura di questo rappresentante del popolo che usa anche la preghiera per migliorare la vita della città e dei suoi concittadini. Sono certo che la città, «percossa, attonita» (sempre Manzoni) dalla pandemia saprà trovare la pacifica gioia di vivere.
Riflettiamo tutti con attenzione sul suono di quell’arnese della funivia di Stresa che ha avvertito, straziandosi, del pericolo per i viaggiatori, i turisti, i cittadini. Chi lo ha provocato aggirando la legge, i regolamenti, il buon senso stesso della convivenza umana e civile si è giustificato, pare, dicendo che non si poteva lontanamente pensare di rinunciare al guadagno ingente che si approssimava e che si sentivano sicuri di poter far andare quel treno volante.
Quel suono è lontano, finito, ma il suo assordante segnale, va ricordato: dovrebbe segnalare, da ora in poi, l’allarme delle coscienze e la prudenza collettiva. Pena: diventare «un volgo disperso che nome non ha». E che imbratta i muri e le mura.