Mio zio, professore di Italiano e Latino nei licei, era un conversatore ostinato e dotto, ma, spesso, non sereno e distaccato. Poligrafo e polemista, nella sua biblioteca ingentissima non mancavano, naturalmente, i classici della letteratura, della filosofia, della storia e delle scienze umane, ma figuravano, anche, in appositi scaffali chiusi a chiave, opere ispirate dal pensiero, diciamo così, rivoluzionario, acceso liberale o libertino, inteso come erotico, anche se tenue.
Da giovane studente, frequentando quelle scansie, mi domandavo, per esempio, la ragione dell’affiancamento della Ideologia tedesca di Marx-Engels, salvata dai topi roditori che preoccupavano gli autori, agli scritti di Retif de la Breton, pornografo diletto agli intellettuali sin dalla Rivoluzione francese. Tra questi tomi secretati che, peraltro, io trovai subito il modo di scrutinare, notai un repertorio, una specie di sommario della lingua conflittuale ad uso degli oratori e degli avvocati. Roba raffinata: frasi polemiche ben articolate, usi logici acuminati, indugi colloquiali, invettive taglienti da pronunziare ore rotundo. Era una lingua colta, forte di un lessico elegante. Per esempio, il termine «furbetto» non compare fai. Malfattore, sì.
La minima prefazione recitava: «Se non puoi confutare le argomentazioni di un uomo, non tutto è perduto. Puoi sempre insultarlo. Sono certo che il lettore di questo libro saprà sempre fare a meno di insultare il suo interlocutore. Non ne avrà bisogno. L’autore».
Mi tornano in mente quel libro, la biblioteca e mio zio, oggi, per le ragioni che dirò. Quando, nel salotto di casa, mio zio professore non sopportava più una chiacchiera noiosa, greve o inutile o un discorrere tollerante di corruzioni, indulgenza per gli scandali e rassegnate, quando non encomiastiche, valutazioni delle malefatte, annunciava: «Vado a prendere una boccata d’aria».
E usciva sulla piazza (di Bitonto) per mescolarsi coi tabarri che dondolavano borbottanti nelle incerte luci della prima sera. Era, quella, un’aria del tutto metaforica che consisteva nella distanza virtuale e non solo territoriale che metteva tra il suo pensare e le corbellerie o, peggio, le volgarità che era stato costretto ad ascoltare e che s’era stancato di confutare. Per non arrivare all’insulto, prendeva la «boccata d’aria».
Anch’io ho pensato di uscire a «prendere una boccata d’aria», leggendo il resoconto indignato pubblicato sulle pagine di questo nostro giornale di fatti recenti nella vicenda delle vaccinazioni. La mia boccata d’aria era in senso metaforico, dato che sarei dovuto uscire con la mascherina se avessi anelato respirare nel senso fisico della parola. Ho proseguito nella lettura. Questo il titolo: «Il venerdì nero dei vaccini: code e caos nell’hub in Fiera». Il testo dell’articolo è malinconico, parla di ««una mattinata terribile» vissuta da «persone fragili, anziani, malati oncologici, disabili e accompagnatori che si sono presentati ieri per la somministrazione del vaccino». Invano.
Già dopo la perlustrazione delle pagine precedenti mi ero imbattuto nella lettura di un articolo che istigava al ridicolo. Non al comico, al ridicolo: l’otto per cento delle «somministrazioni dei vaccini effettuate fino a ieri in Puglia è classificato nella categoria ‘altro’. Tanti in numero assoluto quelli di “altro”: (56.000 su 708.000) …».
Gli uffici del Commissario, il Generale Figliuolo, hanno chiesto per la seconda volta alla Regione di spiegare chi ci sia dentro quell’«altro».
Il bravo Massimiliano Scagliarini che scrive il resoconto dei fatti precisa che la «prima richiesta di dati, la scorsa settimana, era caduta nel vuoto». E, riassumo, specifica che quel misterioso «altro» raccoglie i vaccinati non ascrivibili alle sei categorie codificate nel piano vaccinale. E chi sono questi «non ascrivibili» e chi li ha resi non ascrivibili: la loro condizione spirituale, fisica, socioprofessionale, la simpatia, l’indole, il colorito, l’appartenenza corporativa? La statura, una stagionata benemerenza per un voto di scambio? il tifo calcistico? Forse una fortunosa parentela?
È a questo punto che il disgusto mi ha spinto a voler «prendere una boccata d’aria». Pura e metaforica. E girar pagina. Ma ho resistito. Ho resistito perché mi sono imbattuto nella parola «furbetti». Ebbene, sì: potrebbe trattarsi di furbi che si sono intrufolati nel generico astrattismo di quell’«Altri» che avrebbero potuto essere persone fragili, badanti, coniugi meno malridotti del partner che le badanti non se le possono permettere. Ma questi non sono furbi e, tanto meno, vezzeggiati diminutivi di furbi: questi sono malfattori. E ancor più nauseanti sono i loro protettori. Si sospetta della possibilità che siano stati vaccinati a scrocco e senza alcun diritto alla priorità «parenti e amici di medici, avvocati, impiegati» e via sospettando. Cito il nostro giornale di ieri per chi legge e, come me, prova nausea.
Questa della pandemia avrebbe potuto essere una prova smagliante di coraggio culturale, onestà collettiva e individuale e impegno sociale. Ancora può esserlo. I popoli si possono misurare nel momento del pericolo comune e del bisogno del coraggio collettivo. Questi scandalosi fatti mi rendono perplesso, sconsolato. Disperato, direi. La vigliaccheria rialza caparbiamente la testa agitandosi nella miseria morale di chi non può e non deve passare per furbo, per giunta vezzeggiando il proprio ego con un diminutivo.
Il Paese tutto deve unirsi e rimettersi, non solo a cantare sui balconi, ma ad affrontare i sacrifici con sobrietà e determinazione, esser pronto a cedere il passo a chi sta peggio, a coloro che hanno bisogno. Non a spintonarli fuori della coda, visto che non sono furbetti. Di questo parlerebbe la piazza, se fosse possibile viverla come una agorà. Oggi anche mio zio farebbe a meno del suo respirare metaforico aria pura e verità. Sarebbe il primo a compiere il sacrificio di evitare la contiguità e i contatti che la piazza esige. I «furbetti», loro, si, se ne infischiano, sono raccomandati e stanno lì, bighellonando. Senza mascherina.