Non sapremo mai quanto la pandemia avrà fiaccato o rinfocolato la fede degli italiani. In questo anno e passa di sofferenza le chiese sono state a numero chiuso, le processioni, i funerali e le altre pubbliche manifestazioni religiose sono state cancellate. Per ben due volte la veglia pasquale, che per sua natura è notturna e così la prescrive il messale, è stata celebrata di pomeriggio. Nella notte di Pasqua c’è la madre di tutte le celebrazioni, come ricorda l’Exultet. Ricchissima di simbologia, in essa si concentra l’essenza della fede in Cristo. L’insieme di elementi religiosi che sostengono e trasmettono la fede è stato ridimensionato, adattato, tagliato di momenti e segni importanti come, per esempio, lo scambio della pace.
È vero che la fede è un dono, ma come ogni altro dono può essere abbandonato in cantina, coperto di polvere e ragnatele, oppure può essere valorizzato al centro della casa. In questo ventaglio di scelte sta in fondo la libertà dei credenti. Ecco allora che assume un valore diverso e più profondo la parola del Papa che prova a far superare il momento difficile e a far sperare nel futuro, in modo da ricominciare. È curioso come questi due termini – superare e sperare – siano distinti solo da una vocale. Eppure sono indissolubilmente legate dal senso: è solo sperando che si può superare un ostacolo, un momento negativo, una crisi di rapporti. Sperando e superando si può sempre ricominciare, come ha detto Francesco nell’omelia della notte di Pasqua.
Alla speranza però bisogna offrire il giusto contesto. C’è una speranza che poggia sulla roccia della fede e c’è una speranza che poggia sulle debolezze (fragilità è ormai parola fin troppo abusata) umane. Nella primavera scorsa abbiamo sperato nelle capacità delle scienza di mettere a punto un vaccino efficace, poi abbiamo sperato che non fosse nocivo, ora speriamo che lo si possa avere tutti al più presto. È una speranza molto laica, che poggia sulle certezze della scienza e del suo metodo, ma non può andare oltre. Nell’ambito della speranza «laica» sono nascosti anche tanti difetti e tante cadute dell’uomo: la speranza di vincere al gioco, la speranza che un uomo o una donna accettino il corteggiamento, la speranza di una promozione o di un riconoscimento, la speranza che nessuno scopra le mie magagne. È un catalogo vasto quanto vasti sono i modi di mentire dell’uomo a se stesso.
Allora bisogna rifarsi alla speranza che Paolo di Tarso unisce alla fede e alla carità, le «tre cose che ci rimangono», dice l’apostolo, che sottolinea come la più grande di tutte sia la carità. E il pensiero del Papa così si è sviluppato: fra la carità dei vaccini per tutti e la speranza che consente di ricominciare sempre, di compiere quel viaggio verso la Galilea che il Risorto indica ai discepoli ancora increduli. «La Galilea è dunque il luogo della vita quotidiana», ha detto Francesco precisando che «Egli (Gesù) ha piantato la sua presenza nel cuore del mondo e invita anche noi a superare le barriere, vincere i pregiudizi, avvicinare chi ci sta accanto ogni giorno per riscoprire la grazia della quotidianità». E non abbiamo noi tutti – credenti e non – in questo momento un grande bisogno di tornare alla normalità della vita quotidiana? Non è il desiderio più grande vedere riaperti i negozi, andare a scuola in serenità, fare una partita a pallone con gli amici, incontrare chi ci pare, viaggiare e spostarci liberamente?
È strano come non avessimo mai pensato alla «grazia della quotidianità», anzi spesso l’abbiamo confusa e come tale disprezzata associandola al termine routine. «Una monotona e deprimente consuetudine», così i dizionari spiegano la parola routine e così in tanti valutavamo le nostre giornate: «una monotona e deprimente consuetudine». Una considerazione che ha portato alla logica dello sballo e dello sbando. Perché in tanti hanno visto così le loro giornate e trasformato il fine settimana nell’unica interruzione possibile alla monotona e deprimente consuetudine, l’unica via per uscirne, seppure per poche ore.
Se davvero vogliamo ripartire bisogna fondare la speranza su certezze diverse, più profonde e più impermeabili alle difficoltà del momento. Altrimenti ci sentiremo sempre sbandati, avremo sempre bisogno di un nemico con cui prendercela. La politica italiana è un manuale perfetto da questo punto di vista: finché si tratta di parlare male dell’avversario, di contestare i provvedimenti di qualsiasi autorità, è facile e gli attacchi risultano anche convincenti. Quando è necessario passare a costruire non ci sono più argomenti e ogni slogan e ogni trovata comunicativa si mostrano per quello che sono: un’abile costruzione di parole manipolate da esperti il cui unico scopo è di creare il consenso e non di raccontare la verità.
In tanti hanno detto che la pandemia ci avrebbe resi più buoni. Non è accaduto, anzi ci ha resi più aridi. Però stiamo rivalutando la «grazia della quotidianità» e forse questo ci aiuterà a sperare e a superare il tempo difficile. In fondo è questo che alla fine ci interessa.