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La riforma dei cervelli per salvare il Belpaese

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

La riforma dei cervelli per salvare il Belpaese

La questione centrale è di natura culturale e tocca, come già detto, tutta la Penisola: va sviluppata l’impresa, non l’industria

Martedì 16 Febbraio 2021, 15:03

Se il certificato di nascita e di residenza di premier e ministri fosse all’origine della crescita, o meno, dei loro rispettivi territori di provenienza, la Sicilia sarebbe la regione più ricca d’Italia. Fatta eccezione per il governo appena insediato, la terra di Luigi Pirandello (1867-1936) e Leonardo Sciascia (1921-1989) vanta, insieme con il Piemonte, il primato di governanti di prima fascia ai vertici del Belpaese, a partire dal 1861. Eppure, come accennato, la Sicilia, che stregò per la sua bellezza e il suo straordinario potenziale di sviluppo lo scrittore francese Guy de Maupassant (1850-1893), non ha raccolto il dividendo di una cospicua e lunga presenza dietro le scrivanie che contano. Nemmeno il privilegio dell’autonomia ha contribuito a mettere benzina nel motore della regione siciliana.

Anzi, sono in tanti, ora, tra gli stessi intellettuali isolani, a maledire il momento in cui la «benedetta» autonomia venne ratificata in Costituzione.
In questi giorni, il tema della territorialità dei ministri è nuovamente rimbalzato agli onori della cronaca politica. Motivo scatenante: la sottorappresentazione del Sud nella squadra ministeriale allenata da Mario Draghi. Intendiamoci. Che nella formazione di un governo si debba tener conto anche della provenienza geografica di un ministro, non ci piove. Che cosa si direbbe, infatti, di un esecutivo composto quasi esclusivamente da piemontesi, o da lombardi o da campani? Si obietterebbe che la cosa è come minimo bizzarra, o singolare, visto che tendenzialmente chi gestisce denaro pubblico tende a favorire il proprio collegio o la propria zona d’elezione. Ma non si può nemmeno sostenere il contrario, ossia che il bollino di provenienza dei governanti costituisca di per sé, per le aree interessate, garanzia di sviluppo e che per questa ragione va alimentata l’offensiva contro il Nord, le cui élite, avrebbero ripreso il sopravvento tramite il governo Draghi, ovviamente a danno del Sud.

Non scherziamo. Di tutto ha bisogno l’Italia tranne che di una (nuova) guerra fredda Nord-Sud. Piuttosto. Riprendendo, sciascianamente parlando, il concetto di Sicilia come metafora dell’intero Sud (ma anche dell’Italia intera), come mai il decollo economico di quella regione non è avvenuto nonostante la montagna di quattrini ricevuti e nonostante la benevolenza del Padreterno che l’ha resa magnifica, unica e irripetibile nel paesaggio, nella natura e nel clima?

La risposta non è univoca, ma ricordate cosa scriveva lo storico irpino Guido Dorso (1892-1947), assai legato a Piero Gobetti (1901-1926) e alla sua Rivoluzione Liberale? L’aspirazione di Dorso, rivelatasi poi un’utopia, era l’avvento, l’affermazione, nel Sud, di una borghesia non classista in grado di realizzare in loco una rivoluzione democratica e civile. Infatti, stiamo ancora aspettando. Servirebbero, tuttora, all’uopo, i «cento uomini di ferro» cui affidare la guida della rivoluzione meridionale auspicata da Dorso. Dove sono? Forse ci sono. Di sicuro, ci sono. Anche in misura ragguardevole. Ma molti fra i più intraprendenti non hanno modo di venire alla luce e di esprimersi a causa di un Contesto locale e nazionale (normativo e politico) che li frena, a volte anche con la sudditanza e la complicità degli stessi amministrati, che si accontentano delle comodità del consumismo assistenziale mentre l’industria della lacrima premia, di solito, i più bravi nell’intercettare risorse pubbliche.

Ma - il discorso riguarda tutta la Penisola - così non si forma quella borghesia morale agognata da Dorso. Così si forma e si rafforza solo una classe di rapaci, per lo più affollata da politici di occasione e da prenditori di professione, che sono l’opposto di quelle «persone serie» indispensabili al Sud (e al Nord) nei posti di comando. È inammissibile che la competenza più ambita debba riguardare la spremitura del denaro pubblico. Non è concepibile che la politica debba costituire la maggiore industria (non a caso, però, laddove la politica è la maggiore produttrice di “posti”, lo sviluppo resta una chimera). Per fortuna la Puglia presenta vistose eccezioni e annovera parecchi capitani coraggiosi spesso osteggiati dal blocco politico-burocratico. Ma - ripetiamo - il Contesto non aiuta la realizzazione del sogno di Guido Dorso.
La questione centrale è di natura culturale e tocca, come già detto, tutta la Penisola: va sviluppata l’impresa, non l’industria.

Va riformata la giustizia (soprattutto civile) in modo tale da rendere più semplice il mestiere dell’imprenditore, il cui scopo è investire, non cercare di uscire vivo dal labirinto legislativo e amministrativo.
Bisogna spezzare quei giri perversi paventati dal teorema di Acemoglu-Robinson: «Le istituzioni che creano povertà generano circuiti viziosi che consentono loro di perdurare». In concreto: si eleggono modesti e spregiudicati che frenano lo sviluppo generale pensando solo al loro tornaconto individuale. Una spirale micidiale.
Invertire la rotta non è un proposito di facile attuazione. Per portarlo a compimento non basta una rivoluzione dall’alto. Resta imprenscindibile, anche, una rivoluzione dal basso, una palingenesi, una catarsi etico-caratteriale dello spirito italico più corrivo. Servirebbe, oltre alle note riforme che ci chiede l’Europa, anche quella «riforma del cervelli» di cui parlava il giurista Enrico Dalfino (1935-1994), indimenticato sindaco di Bari. Purtroppo un altro programma assai vasto e ambizioso. Ma obbligatorio.

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