Un popolo di connessi, ma sconnessi. Il telelavoro di massa, dalla prima quarantena totale, ha coinvolto più di sei milioni di italiani. Chissà quali numeri ci riserverà il futuro prossimo, dato che lo smart working non sembra destinato ad essere archiviato come una parentesi, anzi. Tutto lascia pensare che il lavoro a distanza sarà il minimo comune denominatore di un elenco sempre più lungo di attività. Ovviamente: chi, fra gli stati, sarà più rapido di riflessi nel velocizzare al massimo la connessione digitale, avrà più chance di crescita. Chi continuerà a sonnecchiare o a ignorare la rivoluzione in atto, sarà condannato a una decrescita impietosa e dolorosa.
Purtroppo il Belpaese non sembra in pole position nella corsa verso l’ammodernamento telematico. La sua classe politica tende a ignorare l’importanza fondamentale di una connessione degna di questo nome. Sembra quasi che la digitalizzazione dello Stivale sia un capriccio di qualche maniaco delle nuove tecnologie e che, invece, sia meglio aspettare gli eventi per vedere l’effetto che fa.
Neppure la delicata situazione della scuola italiana, reduce da un primo confinamento e ormai prossima, dopo la Puglia, a sperimentare il secondo lockdown su scala nazionale, è riuscita a svegliare i decisori politici, portandoli a collocare il progetto di banda ultralarga (sull’intera Penisola) in cima a tutti gli obiettivi di breve, medio e lungo termine.
Se neppure lo choc scolastico, con i genitori giustamente preoccupati per una didattica a distanza che rischia di restare tale a oltranza, è servito a porre la questione della fibra ottica al centro di ogni tavolo di discussione, vuol dire davvero che il folgorante aforisma di Ennio Flaiano (1910-1972), e cioè «la situazione è grave, ma non seria», costituisce l’immutabile fotografia della nazione italica.
Da quando ha fatto la sua apparizione sulla Terra, l’uomo si è posto l’obiettivo di correre sempre più velocemente, dato che correre di più significa guadagnare tempo, e siccome il tempo, dopo l’intelligenza, rappresenta la risorsa primaria per lo sviluppo sociale e produttivo, chi è rimasto indietro ha pagato a caro prezzo il benefit della lentezza.
In fondo, cosa è l’innovazione se non il matrimonio tra tempo e intelligenza, il cui contatto continuo genera tecnologie in grado di alleviare la fatica umana e di accrescere la produttività personale e generale?
La scuola dovrebbe essere la prima beneficiaria dei continui traguardi raggiunti dall’innovazione tecnologica. Se così non fosse non solo essa perderebbe prestigio, ma arrancherebbe come una Topolino dietro una Ferrari. Invece, il fattore tempo e il fattore innovazione fanno fatica a trovare avvocati difensori nel mondo dell’istruzione, perlomeno a livello legislativo-decisionale.
La pandemia, con gli imprevedibili ostacoli alla didattica in presenza, avrebbe potuto segnare una svolta, un punto di discontinuità, nelle politiche nazionali. Come? Scatenando, ad esempio, un pressing alla Gattuso per ottenere una connessione accettabile nei collegamenti ex remoto cui sono sottoposti studenti e insegnanti. Macché. Nessuno ne parla. Tutto come prima.
Eppure, soprattutto al Sud, lo stato dell’arte della rete telematica non ha bisogno di inviati speciali di grido per essere conosciuto nei minimi particolari. La connessione è lenta pressoché ovunque. La fibra ottica arriva fino alla cabina, non alle abitazioni. In alcune aree del Mezzogiorno, poi, la connessione fa rima con astrazione, e la cosa non desta particolare apprensione. Alcuni sindaci, che evidentemente vivono su Marte o nelle caverne, non vogliono neanche sentire parlare di 5G, quasi che la velocità digitale fosse farina del diavolo.
Come si possa solo immaginare di dare vita alla cosiddetta DDI (didattica digitale integrata), nella convinzione di non compromettere l’apprendimento dei ragazzi, rimane francamente un enigma avvolto in un mistero. Gli stessi istituti scolastici soffrono problemi di connessione alla rete e, in certi casi, sono telematicamente più isolati delle Tremiti quando tira burrasca. Per non dire delle famiglie, non tutte provviste di dimore tecnologicamente dotate; non tutte residenti in quartieri o paesi passabilmente connessi; non tutte dotate di un computer a figlio, in caso di prole numerosa.
Come si fa a garantire la didattica a tutti in queste condizioni di grave arretratezza tecnologica? Già, come si fa? Già in uno scenario ottimale, vale a dire in un contesto digitale iper-connesso, la fase di apprendimento può essere ostacolata e intaccata dalla dispersività oggettiva del medium in questione (Pc, tablet...). Per capirci: chi legge un libro non può essere distratto da altro, invece chi sta al computer può essere distolto da mille seduzioni, interferenze e invasioni di campo. Figuriamoci quante distrazioni, quante imprecazioni, quante disillusioni, quante incursioni nella concentrazione individuale potrebbero essere provocate da una connessione digitale sciuèsciuè, per non dire di peggio.
Ovviamente, il quadro testé dipinto, nel Mezzogiorno presenta tinte assai più fosche. Per colpa della didattica a distanza inficiata dalla scarsa connessione, milioni di studenti rischiano di vedere alleggerito irreparabilmente il proprio bagaglio di conoscenza. Per colpa della connessione da aree sottosviluppate, un esercito di giovani laureati meridionali rischia di veder compromessa la prospettiva di venire assunto, restando a casa grazie allo smart working, da imprese sparse sulla sfera terrestre.
Insomma. Il disastro sanitario ed economico causato dalla pandemia avrebbe dovuto e potuto trasformarsi anche in una inattesa opportunità: concentrare tutti gli sforzi sulla digitalizzazione del Paese, sulla spalmatura della banda ultralarga, soprattutto al Sud, anche nella prospettiva della riduzione del divario infrastrutturale col Nord.
Peccato. Di tutto si parla, tranne che dell’esigenza insopprimibile di una connessione apprezzabile da Merano fino a Lampedusa. Sì, si discute della Rete unica per la fibra ottica, e dei relativi fornitori. Ma l’emergenza scuola richiede interventi immediati, hic et nunc, non basta più il rispetto di cronoprogrammi stabiliti in passato, nei tempi ordinari.
E poi ce la prendiamo con i Paesi che viaggiano, in rete, a velocità siderale. E poi ci lamentiamo se nelle graduatorie internazionali, le nostre scuole fanno la figura di chi fa collezione di debiti formativi. Come si fa a crescere economicamente se la scuola viene tenuta a debita distanza anche da una connessione telematica che potrebbe ridurre il danno delle videolezioni introdotte causa Covid?
(foto Genovese)