Nel ristorante barese reclamo il «sopratavola» in cui esigo che fioriscano i pomodori secchi sottolio. Alla mia ospite, che pugliese non è, spiego che sono pomodori cotti dal sole e conservati nell’olio prezioso della terra nostra.
Suggerisco alla mia ospite che barese non è, di agguantare il pomodoro rattrappito con un tarallo. E, pungolato dalla mia ospite che bitontina non è, aggiungo la leggenda del tarallo: narro della sua nascita nell’impasto di farina e acqua, olio e forza di gomiti, carezze vigorose di mani esperte e, talora, con la correzione della sua indole troppo soave, con un sorso di vino bianco. L’anello di pasta, così armonizzato, affronterà il forno dove bruciano «lioni» ruderi di vecchissimi ulivi per arroventare in «spasarole» nere e unte non prima del congedo battesimale di pochi attimi in acqua bollente. La mia ospite che non è bitontina, pesca il pomodoro secco e oliato, col tarallo e mi prega di continuarne la storia mentre lo sbriciola sotto i denti.
E, allora, aggiungo un gioiellino popolaresco: per sigillare il tarallo crudo e appena bollito per un paio di vaporosi secondi, la zia (a voi scegliere il nome) usava una chiave, un chiavistello piccolo da portella di armadio, possibilmente ornato di una dentatura complessa usato come un saldatore. E il tarallo è pronto sia nella sua versione semplice, tondeggiante, irregolare nella sua tendenza all’ovalizzazione, sia nella più complessa forma a «manetta del carabiniere».
La saldatura era un modo per firmare il tarallo e rendere tutta la «spasarola» inconfondibile, lì, giù, al forno di fronte a casa, a Bitonto. Io ero arruolato a scortare cameriera e taralli biancheggianti come arabeschi sul nero del metallo. Dovevo aspettare e vigilare, affastellato anche io, come le fascine abitate da spavaldi coniglietti, che il forno compisse la sua rovente fatica e, poi dovevo scortare i taralli dorati e marcati dalla minuscola araldica della chiave dello stipo. L’ospite, intanto, per via dei racconti che ascolta dolcemente stralunata e, soprattutto, per via di taralli e pomodori e vino bianco del Salento, è arruolata tra i pugliesi volontari, intinge un tarallo e assapora. E sembra dimenticare e, con me, archiviare nel registro dell’ordinaria maleducazione, l’esordio sguaiato, che ha un poco segnato la serata, dovuto alla movida per le strade della mia città così maldestramente tollerata da chi dovrebbe vigilare e punire. Come narravo domenica passata.
Preferisco la conversazione e rivado con la memoria alle piccole distese di quei rossi pomodori spianati sui terrazzi o, addirittura, sui marciapiedi esposti alla cucina naturale del sole cocente, appunto, per raggrinzirsi ed essiccarsi a costo zero. Senza carburanti di alcuna risma. Solo con la canicola.
Canicola si chiama quel clima ossessionato da un sole perentorio e implacabile che nelle nostre estati nitide sbiancano di luce e calura strade e campagne. La canicola infierisce nel periodo di caldo afoso e opprimente delle ore centrali della giornata, caratterizzato da alti valori di temperatura e assenza di vento.
Canicola, solleone, controra, erano un prezzo pagato senza fiatare dalla gente del sud per meritare anche il vantaggio di abitarla, la terra del sole, quel «mezzogiorno» d’Italia tante volte invocato nelle battaglie sociali del Novecento. E tanto meno conviene lamentarci oggi, visto che dal sole potremmo trarre energia. Non forza metaforica o genericamente salutistica, no, proprio energia, quella che serve per fare andare avanti il mondo. Non si può più, infatti, neanche lontanamente pensare di continuare a bruciare combustibili fossili che avvelenano, inquinano l’ambiente e che hanno un costo strategico, in termini di politica ed economia non più accettabile. Insomma, basta con lo stramaledetto e costosissimo petrolio. Lessi una volta, anni fa, che la Puglia voleva diventare la regione più verde d’Italia e, per farlo, avrebbe incrementato ogni sforzo, ogni iniziativa benemerita e benedetta. Anni fa.
Poi c’è stata la Xylella.
E, purtroppo, c’è la Xylella. Le carte topografiche che denunciano impietosamente lo stato drammatico degli uliveti raccontano, aggiornate a questi giorni di un’avanzata del nemico spietata e irrefrenabile. Sono curioso di seguire la campagna elettorale, borbotto tra me e me. Non abbastanza tra me e me perché la mia ospite non mi chieda la ragione di un’improvvisa inappetenza: dopo la tristezza istigatami dalla Xylella, mi è venuto in mente il dramma dell’ex Ilva di Taranto. E le ripeto a voce netta che sono curioso di capire che cosa sia scritto nei programmi dei contendenti nell’imminente contesa delle elezioni in ordine alle piaghe che rischiano di farci passare l’appetito. Non si lascino distrarre dal tempo turpe del Covid 19 che stiamo sopportando, fa parte dello stesso enorme problema. Tutta la politica deve prendere atto che questa maledetta epidemia prende avvio anche e soprattutto dalla distruzione del pianeta che stiamo perpetrando. Oggi, più che mai da quando è iniziato il tempo dell’«antropocene», l’umanità ha dilapidato follemente le risorse del pianeta e la preponderanza dell’egoismo dell’uomo che sfrutta spietatamente e senza pensare al domani, né ai suoi discendenti, la Terra in cui gli è stato dato il privilegio di vivere e scrivere la storia, segnerà tempi terribili.
Il Covid 19 è uno dei segni premonitori. Non dovrà essercene un altro. Pensateci prima di affollarvi nelle movidas.
La mia ospite propone: Andiamo avanti col sole. Mi accorgo che questo «Avanti col sole» sembra uno di quegli slogan del vecchio, caro, socialismo umanitario del Novecento: non avrebbe permesso i salti di specie di una natura abbrutita dall’umanità e il sole sarebbe sempre quello che annuncia la giustizia sociale: il Sole dell’Avvenire. E anche quello che prepara i pomodori secchi da custodire sott’olio. Le due cose vanno d’accordo. Per parte mia, sono convinto che dovrebbero andare ancora armoniosamente d’accordo per salvare la Puglia e l’Italia. La mia ospite che italiana è, si associa.