Ormai è ufficiale: il Coronavirus ce lo stiamo portando noi nelle case nostre, nei nostri luoghi di lavoro, perfino nei luoghi che per eccellenza dovrebbero essere dedicati alla cura, gli ospedali. Il virus dell'anno bisesto d'altronde non viaggia col vento ma si espande dai luoghi di contagio a bordo delle persone che incuranti di decreti, leggi, multe e prediche, hanno prima disubbidito alla quarantena prevista per chi proveniva dalle zone rosse e poi più o meno continuato a fare la vita di prima. Come se nulla fosse. La vicenda dell'ospedale di Castellaneta d'altronde è emblematica. Un dirigente medico va fuori regione, torna, e si fa sottoporre a esami chirurgici dai suoi colleghi di lavoro, una parte dei quali ieri risultato positivo ai tamponi. Non si tratta di processare questo o quell'altro – sarà la magistratura prima o poi a fare chiarezza sulle eventuali responsabilità - o di additare al pubblico ludibrio l'untore di manzoniana memoria, con il vecchietto lapidato perché si era permesso di spolverare con un fazzoletto il banchetto della chiesa dove si era recato per assistere alla messa con il professionista sicuro di sé che va a prendere la figlia dal Nord e ritorna col camice addosso, tanto non è a lui.
C'è un comportamento bipolare in noi meridionali davvero incredibile. Passiamo le ore a investigare per capire chi sono i contagiati del giorno, bravi a tracciare meglio delle celle telefoniche parentele-amicizie-comparanze-spostamenti, dicendo ai compagni di chat – che essendo spesso composta da un numero maggiore di 3 persone è paragonabile ad una vera e propria associazione a delinquere – e una volta posato lo smartphone usciamo a farci una passeggiata come se nulla fosse, come se l'emergenza toccasse a qualcun altro, pieni di quel vaccino che mezzo mondo sta cercando di scoprire e brevettare, insensibili alle drammatiche immagini delle decine di bare allineate a Bergamo.
Non capiamo che finirà – perché finirà – anche e soprattutto se adotteremo comportamenti coerenti con la voglia, che abbiamo, di uscire con gli amici, tornare allo stadio, andare a ristorante, gustarci le nostre città, riempirci gli occhi dei paesaggi meravigliosi che la nostra terra sa regalare, andare al lavoro per ritrovare i colleghi di sempre. È difficile tenere a casa i nostri figli, e noi per primi, specie se i nostri numeri dei contagiati sono parecchio inferiori a quelli di altre parti d'Italia e del mondo ma non capiamo se non c'è stata – ancora - l'esplosione temuta è anche perché da dieci giorni a questa parte stiamo vivendo una fase di privazione della libertà personale che altrove è stata adottata quando il virus aveva già allargato la sua maledetta corona e che mai come in questo caso, prevenire è un miliardo di volte meglio che curare. Certo, serve uno sforzo corale e ancor prima occorrono buoni esempi, e quanto accaduto all'ospedale di Castellaneta non pare proprio un caso da imitare. Ma usiamo questo caso – in attesa che se ne definiscano i contorni – per trarne una certezza: nessuno può sentirsi al sicuro.