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Uno Stato emotivo portato alla depressione

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Uno Stato emotivo portato alla depressione

Il caso del coronavirus ha messo in risalto, ancora una volta, il profondo distacco tra la classe dirigente italica e l’etica della responsabilità

Giovedì 27 Febbraio 2020, 15:30

Raramente Aldo Moro cedeva alla tentazione di offendere qualcuno. Ma quando (s)qualificava un collega con il termine emotivo ciò significava che costui l’aveva fatta grossa. Un politico, nella concezione di Moro, non poteva (non può) consentirsi di essere emotivo, ossia affidarsi all’istinto e ignorare l’etica, il senso di responsabilità. L’etica della responsabilità impone di riflettere sulle conseguenze di ogni decisione, specie quando il decisore riveste una funzione pubblica, con effetti a cascata sulla vita dei cittadini.
Ora. Il caso del coronavirus ha messo in risalto, ancora una volta, il profondo distacco tra la classe dirigente italica e l’etica della responsabilità, nell’accezione assegnatale dal politologo e sociologo tedesco Max Weber (1864-1920).

Colpa del combinato disposto tra videocrazia e retecrazia, la vicenda del morbo cinese è sùbito salita, mediaticamente parlando, sul ring dell’intrattenimento. E quando un problema o una materia balzano su questo palcoscenico, il k.o. della verità (e della collettività) è assicurato. Non solo si perde di vista il confine tra vero e falso, non solo il dibattito assume la forma di una discussione da portineria, non solo riprende slancio la teoria dell’uno vale uno, ma - ecco il conto più pesante - avanza in brevissimo tempo il sentimento più deleterio che possa diffondersi in una comunità: quel senso di isteria aggravata dalla sfiducia. Quanto di più pericoloso e autolesionistico possa capitare ad una nazione.
Il coronavirus non è un esclusivo affare italiano. Ma solo in Italia sta monopolizzando h24 le trasmissioni televisive, riuscendo a oscurare persino Messi e Cristiano Ronaldo, il che ha dell’incredibile in un Paese che ha nel calcio la sua religione primaria; e riuscendo addirittura a confinare il provvedimento sulle intercettazioni nelle ultime pagine di giornali e telegiornali.
All’estero, i tg si occupano dell’epidemia, ma con giudizio, come direbbe il celebre personaggio manzoniano. Non bombardano in continuazione i telespettatori né lo conducano a uno stato di depressione, né lo solleticano a esercitarsi in strampalate teorie cospirazionistiche. E, soprattutto, non contribuiscono, con gli allarmi minuto per minuto, a deprimere un’economia - il cui concime essenziale rimane la fiducia nel futuro - che è già debilitata di suo. Infatti, da noi, si profila un mix tra depressione (non solo psicologica) e recessione (non solo economica).

Altrove, cioè all’estero, non governano manipoli di irresponsabili, a tutti i livelli. Né, colà, operano signori amanti della censura e dell’autocensura. Anzi. Ma un conto è informare, un conto è deformare e, sovente, disinformare. Anche l’informazione richiede equilibrio e senso di responsabilità, come la politica. Se, invece, come accade soprattutto sulla Rete e nei numerosi salotti catodici, il Fattore Trattenimento travalica ogni misura in nome dei «mi piace» e dell’audience, il risultato finale è inevitabile: chiunque in questi giorni, sintonizzandosi con il video o con la Rete, starà pensando che l’Italia è sull’orlo del precipizio a causa del virus e che saggezza consiglia di tenersene alla larga vuoi come turisti vuoi come investitori.
Se, poi, gli stranieri più interessati al chiacchiericcio del Belpaese vorranno appassionarsi alle logomachie in corso tra i nostri pubblici poteri, saranno indotti a pensare che l’Italia è una nazione anarchica, non governata e non governabile, dal momento che ciascuno procede per conto suo; che l’esecutivo viene contestato dalle Regioni; che le Regioni si dividono, nella linea anti-virus, sulla base dei rispettivi colori politici, tanto che il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, ha invocato il loro commissariamento (sul caso coronavirus) da parte del centro; che gli stessi Comuni vanno a briglia sciolta; e che, leggete leggete, c’è pure qualcuno che spera di risolvere l’emergenza affidandosi prima al caldo primaverile e successivamente a quello estivo, roba che sconfesserebbe tutte le marce ambientalistiche contro il surriscaldamento terrestre (che, a questo punto, per l’epidemia in ispecie, sarebbe un fenomeno da benedire!).

Oltre frontiera non sono irresponsabili nel mantenere i toni giusti sul morbo emigrato dalla Cina. Ma, all’estero, si pongono, giustamente, il problema dei contraccolpi economici che scaturirebbero dal doping mediatico, dall’enfatizzazione dell’emergenza. In fondo, fette consistenti della società scientifica invitano a non drammatizzare, a riflettere sul fatto che altri virus provocano ripercussioni ancora più letali, e che, pertanto, solo un Paese in preda a emotività compulsiva o a irrazionalità congenita può reagire come sta reagendo l’Italia, ossia contro se stessa.
Se c’era un argomento che poteva rivelarsi decisivo contro le pretese autonomistiche delle Regioni del Nord, la questione del virus cinese è capitata, ci si perdoni la grossolanità terminologica, a fagiolo. E così pure: se c’era un argomento che poteva ridare fiato al partito trasversale degli europeisti, la «peste» cinese è sopraggiunta a proposito. I problemi mondiali non si possono risolvere con le ricette nazionali, figuriamoci con le soluzioni regionali o locali.
Ma la dittatura dell’intrattenimento, mai così pervasiva come adesso, né si occupa né si preoccupa di queste controindicazioni. Preferisce farsi male e far male, anche perché le è estranea la cultura del dubbio.

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