All’inizio i politici in divisa si vedevano solo in rare occasioni. Quasi sempre in mimetica, durante le visite ai contingenti militari italiani all’estero o in qualche raro evento in Italia. Poi arrivò il capo della Protezione civile Bertolaso, sempre in maglietta, felpa o giacca a vento dell’Istituzione che presiedeva. La novità piacque e si vide qualche politico fare lo stesso, soprattutto durante sopralluoghi e cerimonie in qualcuno dei tanti luoghi colpiti dai nostrani terremoti. Il governo gialloverde ha introdotto un cambiamento anche in questo. Nel senso che ha trasformato una situazione contingente in una sorta di moda. Il più fedele interprete è il ministro dell’Interno Matteo Salvini. In ogni occasione sfoggia giacche e magliette dei vigili del fuoco, dei Carabinieri, della Polizia. Rinnegate le felpe leghiste in favore delle giacche a vento con le mostrine.
Ha provato a imitarlo anche l’omologo-alleato-rivale Luigi Di Maio indossando una divisa da vigile del fuoco. Ma è stata un’apparizione fugace, forse perché abbigliamento scomodo rispetto agli abiti dell’alta sartoria napoletana indossati con sobrio distacco dal ministro del Lavoro.
La moda dei politici di indossare divise in ogni circostanza non è passata inosservata e qualche sopravvissuto piddino si è preso la briga di invocare l’applicazione dell’articolo 498 del Codice penale che punisce “l’usurpazione di titoli o onori”. Tempo sprecato, primo perché il reato è da tempo depenalizzato e al massimo si tratterebbe di un illecito amministrativo; secondo, l’illecito si realizza solo nel momento in cui qualcuno indossando una divisa faccia credere di essere davvero un poliziotto o un carabiniere o un vigile del fuoco. Data la popolarità di Salvini e il suo ruolo è assai improbabile che possa essere scambiato per un vero poliziotto o che lui si metta a fare contravvenzioni. Quindi possono indossare tutte le divise che vogliono, dovrebbero essere fermati solo dal buonsenso o dal senso del ridicolo.
Resta comunque la domanda: perché lo fanno? Per moda? Forse. Per necessità mediatica? Può darsi. In realtà la motivazione più plausibile è che siano alla ricerca di una legittimazione icononica, di una “patente” visibile, di un segno che li identifichi immediatamente come espressioni dello Stato. A ben pensarci i ministri, nonostante l’alto compito cui sono chiamati, non hanno alcun segno distintivo. C’è solo l’auto blu. Ma quando sei tra la gente – e oggi tutti i politici di alto consenso amano farsi riprendere tra la folla – non sei in auto. Invece un sindaco – anche a capo del Comune più sgarrupato – è subito riconoscibile come tale per via della fascia tricolore. Ecco allora che Salvini e Di Maio, dopo il consenso, cercano anche il senso. Perché i simboli hanno e danno senso.
In realtà il meccanismo innescato dai Dioscuri della politica italiana con il gioco delle divise è assai più complesso ed è forse ignoto a loro stessi, che fungono da inconsapevoli protagonisti.
Oggi viviamo un tempo in cui c’è un vero e proprio attacco alla realtà. È condotto da tutto il sistema multimediale, quello stesso che ha contribuito in maniera determinante al successo elettorale di 5Stelle (soprattutto) e Lega. Ma già nel 1980 il filosofo francese Jean Baudrillard osservava che “tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza più scambiarsi con qualche cosa di reale”. Per cui si arriva alla “commutabilità del bello e del brutto nella moda, della sinistra e della destra in politica, del vero e del falso in tutti i messaggi dei media, dell’utile e dell’inutile al livello degli oggetti, della natura e della cultura a tutti i livelli di significazione”. Come direbbe la casalinga di Trepuzzi “oggi non si capisce più niente”. Ovvero la fotografia dell’Italia dei nostri giorni, dove si va perdendo il senso delle cose e il cui malessere diffuso si prova a nascondere – meglio, a confondere - sotto le mostrine di una divisa.