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Perché Montanelli non capiva Moro

 

Sabato 09 Maggio 2009, 16:34

02 Febbraio 2016, 20:21

di Giuseppe Giacovazzo


Trentuno anni fa, 9 maggio 1978, Aldo Moro veniva ucciso e ritrovato nella Renault rossa parcheggiata in via Caetani. Viene in questi giorni ricordato Indro Montanelli, il più illustre giornalista italiano del Novecento che oggi avrebbe compiuto 100 anni. L’accostamento non è solo dovuto a una tragica coincidenza: l’uno e l’altro bersagli delle brigate rosse (Indro gambizzato a Milano, per fortuna se la cavò). Penso piuttosto al fatto che Montanelli, con la sua penna caustica e seducente, non nascose mai la sua ostilità verso lo statista pugliese e la sua politica, anche dopo la morte.
Non gli era simpatico. E Dio sa quanto contasse per lui la simpatia istintiva. Quasi un sesto senso. Me ne accorsi quando nell’inverno del 1962 mi trovai fianco a fianco nel golfo mistico del teatro San Carlo a Napoli, posto riservato agli inviati al congresso nazionale della Dc. Moro tenne il famoso discorso che lo consacrò segretario del partito. E la novità, la svolta storica nella politica italiana, fu l’avvento del centrosinistra che l’anno seguente ci concretò nel primo governo Moro-Nenni.
Montanelli sedeva vicino al collega e amico Luigi Barzini, altro mostro sacro del mestiere, col quale confabulava. Quel congresso segnò anche la fine della collaborazione centrista col Partito Liberale, nel quale Barzini militava. I due aspettavano curiosi di sentire come Moro avrebbe motivato quel distacco. Non vi dico le ironie e le frecciate all’indirizzo del nuovo leader. Riuscii a ingraziarmi il grande Indro riparandogli, da tecnico provetto, la preziosa stilografica che gli era caduta a terra. (Era la mia specialità da studente).
Zittirono perplessi quando Moro argomentò sui liberali. Non si aspettavano un’analisi così acuta. Cosa che non mutò il giudizio di Montanelli su Moro, descritto in uno dei suoi elzeviri come l’arabo nel deserto che guarda indifferente dalla sua tenda il turbinio della tempesta di sabbia. Era solo un anticipo di quel precipitato al veleno in cui lo collocò chiamandolo “dottor Divago”, con la D al posto della Zeta. Gli scaraventò addosso tutti gli attributi del temporeggiatore che fa marcire i problemi rinviando, ritardando… divagando.
La storia invece gli ha dato torto. Anzi narra di un grande uomo politico che fu esattamente il contrario della figura descritta da Montanelli. È ormai giudizio largamente condiviso che Moro sia stato eliminato perché la sua politica anticipava di un decennio la caduta del Muro di Berlino. Perché dialogava con un partito comunista che non era allora compatibile con la politica americana e con l’assetto atlantico sulla guerra fredda tra le due massime superpotenze.
Montanelli non comprese questo dato essenziale: le br uccisero Moro perché era lui il cambiamento, lui fautore di una prospettiva politica di movimento. L’esatto contrario dell’immobilismo, l’opposto del dottor Divago. Potevano scegliere un altro da sopprimere, Andreotti, o Fanfani. Ma così non avrebbero ostacolato il nuovo corso della politica italiana. Perché su questo gli storici sono concordi: con Moro è morta la prima repubblica. La sua fine segna l’involuzione di una classe politica che diventa “casta” in un processo che culmina in tangentopoli e sbocca nell’apoteosi berlusconiana. E se il direttore Montanelli, licenziato in tronco dall’editore Berlusconi, oggi potesse parlare, certamente capirebbe in un lampo quanto sia costata all’Italia la scomparsa del suo dottor Divago.
Sono stato e resto un sincero ammiratore di Montanelli giornalista. E mi dolgo di non aver avuto un buon rapporto con quel grande maestro. Non l’ebbi quando conducevo i dibattiti del tg1. Uno dei quali, tra lui e l’on. Pintor, riuscì piuttosto maluccio per lui. Ma il colmo fu quando scrisse un infelice editoriale intitolato “La vedova nera”, sbeffeggiando con frasi indegne di lui la povera vedova di Aldo Moro, chiamata a testimoniare in un processo che si svolgeva a Torino. Gli risposi dicendo tutto il mio rammarico con un articolo sulla Gazzetta del Mezzogiorno che allora dirigevo. Controreplica immediata: scrive così perché è arrivato alla direzione del giornale grazie all’amicizia di Moro. Un vero infortunio. Presto dovette scoprire che a quel posto ero arrivato l’anno dopo la morte di Moro. E tuttavia non posso fare a meno di inchinarmi alla memoria di un grande giornalista di cui non sono riuscito a diventare amico, pur avendogli riparato quel meraviglioso pennino d’oro che tanti ancora gli invidiano.
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