La serie Mrs Playmen utilizza il pretesto narrativo dell’Italia tra anni Sessanta e Settanta per raccontare una società irrigidita in categorie morali e ideologiche. È un periodo in cui la donna che esce dal modello familiare tradizionale – separata, autonoma, professionalmente ambiziosa o semplicemente consapevole del proprio corpo – viene guardata come una deviazione. Il femminismo è contrapposto alla rispettabilità borghese, l’erotismo alla maternità, la libertà alla fede. Nella serie, queste tensioni vengono tradotte in figure che incarnano poli opposti, semplificando una realtà che, già allora, era ben più sfumata di quanto le norme sociali volessero ammettere.
Se confrontiamo quel contesto con l’attuale cultura sociale, scopriamo che la tendenza a ridurre la complessità non è affatto scomparsa: anzi, si è trasformata. Oggi viviamo nell’epoca delle opinioni immediate, dei giudizi binari, delle identità che devono essere riconoscibili per appartenere a una categoria. Una donna è “femminista” o “tradizionalista”, “libera” o “morale”, “borghese” o “ribelle”, come se queste dimensioni non potessero convivere. La serie riflette bene questo meccanismo, rivelandone l’assurdità: il bisogno sociale di incasellare serve più a rassicurare che a capire.
La politica e la religione, in questo gioco, diventano strumenti di semplificazione. Vengono usate come chiavi interpretative immediate, spesso superficialmente, per spiegare fenomeni che richiederebbero pazienza, ascolto e profondità. La liberazione della donna è uno di questi. A lungo raccontata come una battaglia tra femminismo e morale cattolica, in realtà è stata un processo molto più complesso. Accanto al moralismo repressivo, la tradizione cattolica ha offerto – nella mistica femminile, nell’etica dell’amore libero e consapevole, nella dignità del corpo come tempio – risorse autentiche per un’emancipazione non meno radicale. Figure come Teresa d’Avila mostrano un erotismo spirituale che non si oppone alla fede, ma la intensifica. Allo stesso tempo, molte donne borghesi del Novecento cercavano una via personale, capace di conciliare etica, desiderio, autonomia e cura.
Questo percorso è ancora possibile oggi: una donna libera, anticonvenzionale, femminista e insieme cattolica; radicata nei propri valori e capace di integrarli con bisogni evolutivi, sensibilità personale e responsabilità verso l’altro. Non una donna “contro” la tradizione o “contro” la modernità, ma una donna oltre, che seleziona, interpreta, trasforma.
Le etichette ideologiche servono a chi ha bisogno di certezze, perché permettono di giudicare senza ascoltare, di collocare senza conoscere. Ma creano gabbie di pensiero, irrigidiscono il dialogo, impediscono alle persone di evolvere. La vera emancipazione avviene quando si attraversano queste categorie senza identificarvisi totalmente.
Un esempio contemporaneo? Una persona che sceglie di vivere una relazione stabile ma non tradizionale, che difende i diritti civili ma frequenta una comunità di fede, che sostiene il femminismo senza rinunciare alla sensualità, che lavora nel mondo borghese senza farsene definire. Un individuo che non si lascia spiegare da una sola parola, e che proprio per questo diventa libero: non perché rifiuta i valori, ma perché li abita senza trasformarli in gabbie.
La complessità non è una minaccia: è lo spazio in cui l’identità diventa vera.

















