Il termine “coach” viene dall’inglese e significa letteralmente “allenatore”. Deriva dal Middle English “coche”, corrispondente all’inglese moderno “wagon” (carro) o “carriage” (carrozza, vettura). La parola conserva ancora oggi lo stesso significato: si pensi all’espressione “to travel coach” (“viaggiare in vettura”) riferita a una tratta ferroviaria o a una linea aerea.
Negli anni 80-90, John Whitmore sviluppò il modello GROW, ancora oggi uno dei più usati. In questi anni nacquero le prime scuole di coaching professionale. Prima di lui negli anni Anni ’70, Timothy Gallwey, considerato il padre del coaching moderno, introdusse il “The Inner Game of Tennis” (1974), Il suo approccio mostrò che la performance dipende più dalla gestione della mente che dalla tecnica. Da qui nacque il concetto di “inner game”, applicato poi anche al business. La culla di questi grandi pensatori fu la psicologia umanistica, con Carl Rogers con la sua terapia centrata sulla persona (empatia, ascolto attivo, fiducia nel potenziale umano) e Abraham Maslow, con la teoria della motivazione e autorealizzazione.
Il coach aiuta a risvegliare la responsabilità del soggetto nella propria esperienza di vita, attraverso un accompagnamento in un viaggio che consiste nel cambiare il modo di guardare la realtà e nell’avere nuovi occhi. Nel sentirsi sempre bisognosi di sapere e di apprendere, poiché consapevoli di non sapere mai abbastanza governando con umiltà (socratica) la propria esperienza di crescita e apprendimento. Per dirla con Galileo Galilei “Non si può insegnare niente a un uomo, si può solo aiutarlo a scoprire la risposta dentro di sé”. Il coach lo fa ponendo le giuste domande in una relazione paritaria di rispetto e valorizzazione della persona, che ritiene abbia già le risorse dentro di sé per raggiungere nuove consapevolezze, superare pregiudizi, convinzioni limitanti e visioni ristrette, per accedere a nuovi valori, campi e ambienti di sviluppo. In questo senso la performance - dal piano sportivo a quello umano- consiste nel massimizzare il potenziale, gestendo ed eliminando le interferenze possibili. Tra le maggiori interferenze nel gioco sportivo, ad esempio, c’è il proprio atteggiamento mentale, le convinzioni manifestate anche nel dialogo con sé stessi.
Da qui l’idea di Gallwey secondo cui l’avversario che si nasconde nella nostra mente è molto più forte di quello che troviamo dall’altra parte della rete. E ancora di più saranno i benefici che si sperimenteranno, se da avversario si trasformerà in alleato. Il coaching, dunque, è uno strumento finalizzato a sviluppare il potenziale già presente, performance e obiettivi futuri. Il coaching adotta un approccio centrato sulle possibilità della persona cliente, con fiducia e per questo riesce a stimolare la sua libertà e attiva senso di responsabilità e crescita. Uno stile di accompagnamento che si basa sulla presenza, sul rispetto dei confini, sulla libertà della risposta che varierà a seconda della partecipazione attiva del soggetto. Non offre soluzioni o risposte, non aiuta e non si sostituisce, evita ingerenze, giudizi, consigli, ma si limita a restituire ciò che avviene nel processo di ascolto e di condivisione dell’esperienza, nell’unico interesse del coachee (cliente). Favorisce consapevolezza di sé e sviluppo del potenziale del soggetto, non insegna, non corregge, non promuove, non motiva, non indirizza, non premia o punisce. Un metodo che promuove la persona e il suo naturale percorso di crescita.
















