Il dibattito sul consenso “libero e attuale”, introdotto dall’art. 609-bis del codice penale, continua a dividere l’opinione pubblica. Da una parte chi lo considera una garanzia minima di sicurezza e rispetto; dall’altra chi lo ridicolizza come un’ingerenza normativa nella sfera del desiderio. Ma questa frattura rivela un equivoco più profondo: pensare che la legge possa, da sola, riformare una cultura che da secoli costruisce la sessualità come rapporto asimmetrico di potere. L’art. 609-bis c.p. (“libero e attuale”) serve a riconoscere e punire la violenza sessuale, non a impedirla in origine. La violenza nasce prima della legge, dentro una cultura che normalizza la sopraffazione, minimizza il rifiuto (“stava scherzando”, “non ha detto no chiaramente”), attribuisce alle vittime il compito di prevenire l’abuso.
La violenza sessuale non nasce dall’assenza di norme, ma da un immaginario che ha a lungo legittimato l’idea di una disponibilità femminile presunta e di un’iniziativa maschile che deve insistere, forzare, conquistare. In questo senso, il consenso non è una gabbia burocratica del desiderio, bensì una soglia culturale che costringe a rivedere il modo in cui uomini e donne vengono educati a incontrarsi. il silenzio non basta, il desiderio non è presunto, il corpo dell’altra persona non è disponibile per default. Per alcuni questo è vissuto come una limitazione (“non si può più fare niente”), perché costringe a rivedere modelli di seduzione fondati su ambiguità, pressione o insistenza. Chi deride il consenso, difende lo status quo: il desiderio può non essere reciproco, l’attrazione non dà diritti, la libertà sessuale vale per tutti, non solo per chi la esercita con più forza. La legge è comunque necessaria perché dà un nome alla violenza, sposta il focus dall’“ha resistito?” al “era consenziente?”, manda un messaggio simbolico: il consenso è la base, non un optional.
La legge non ferma da sola gli stupri perché la violenza sessuale è un problema culturale e strutturale, non solo giuridico. Rieducarci al desiderio e alla sessualità, significa andare oltre la gratificazione immediata dell’impulso e dello stimolo, che finisce per appiattire la complessità della relazione lasciando un vuoto di senso. Serve la ricerca dell’altro come persona, con i suoi tempi, le sue ambivalenze e i suoi stadi di maturazione affettiva.
Esiste un altro modo di intendere il corteggiamento e la conquista, che non passa per la pressione ma per il riconoscimento dell’altro come soggetto pieno. Superare l’abitudine culturale di stampo machista di conquista o femminista di liberalizzazione ed emancipazione sessuale, per ritrovare senso e significato nella sessualità come comune denominatore. Si può “conquistare” non accelerando, ma rallentando: ascoltando, osservando, lasciando spazio. Può farlo attraverso la cura della parola, la coerenza dei gesti, la capacità di attendere senza pretendere. In questo quadro, è la sinfonia della reciprocità a manifestare tempi, modalità, ritmo e scelte, non perché investiti di un ruolo passivo, ma perché finalmente liberi di esprimere il proprio desiderio, anche oltre aspettative di ruolo e ansie da prestazione.
La sessualità, allora, non è consumo né prestazione, ma un processo che si costruisce nella danza dei linguaggi verbali e non verbali, nell’attesa che amplifica il desiderio, nella conoscenza reciproca che rende l’incontro significativo. Amare — e desiderare — significa conoscere, e conoscere richiede tempo, attenzione, rispetto della complessità.
La legge può indicare un confine invalicabile, ma spetta alla politica culturale, all’educazione sentimentale e alla responsabilità individuale ridefinire ciò che sta dentro quel confine. Senza questa trasformazione, il consenso rischia di restare una formula giuridica pur necessaria, mentre la relazione continua a essere pensata come un rapporto tra soggetto e oggetto, e non tra due soggetti che si scelgono.

















