Le luci nel monastero delle Benedettine sono ancora spente, la scuola De Amicis è oscurata dal blu della sera, ma un giardino segreto si lascia intuire dietro un cancello che si apre su un pergolato di buganvillee e un corridoio di canneti verdissimi che fanno da avamposto allo studio di un pittore solitario, un uomo che sa essere grato a un gatto di nome Ireneo per il dono della sua amicizia, un vero Maestro che mi lascia entrare nel suo paese delle meraviglie incrinate da certi dettagli nascosti nei titoli delle sue opere. Quando Luigi Spanò accoglie la mia visita senza preavviso nel suo mondo conventuale, il ritiro quotidiano di un artista che preferisce la civiltà dei gatti alla società degli uomini, dalle casse di un impianto stereo incastrato nella foresta di tele materiche si diffonde una musica inconfondibile per chi ama il cinema.
Mentre entro nella stanza del cavalletto e dei tubetti di colore spremuto sulle tavolozze, tra i pennelli e i cataloghi delle mostre che misurano un tempo favoloso fatto di ricerca e insegnamento, visioni e narrazioni, riconosco la colonna sonora de La mia Africa, tutto il suo senso sconfina inondando le stanze rischiarate dalle lampade disposte in giustapposizione di modo da preservare chiaroscuri e penombre. Per tutto il tempo, mentre lo spazio rivela la grandiosità del suo vissuto pittorico, l’enormità della sua vocazione e la potenza della sua produzione, mi racconta del ritorno del gatto Ireneo. Di tanto in tanto, vedendomi assorta nella contemplazione di questo o quel dipinto, si sofferma a rivelare una motivazione profonda, un fatto, la scoperta del vuoto, un amore metafisico, il piacere dello scherzo surrealista, la provocazione del simbolo, la vertigine delle intuizioni sollevate come il fumo di una sigaretta dipinto sulla linea d’orizzonte di una tela che svela il suo soggetto solo all’osservatore capace di presenza.
Non esiste un portale che immette direttamente nell’immaginario di un essere umano eccezionale, eppure questo atelier lo è. L’uomo col cappello dalla firma iconica, non ama essere fotografato, nel suo autoritratto sta con un gatto, la mano sinistra aperta, gli occhi allenati per tutta la vita a osservare, le ore consacrate al silenzio delle forme, al mistero della bellezza. Quando incontriamo un’opera d’arte, facciamo un viaggio senza ritorno. Entrare nello studio di Spanò equivale a partire su un ultraleggero per fare un volo di mosca e atterrare su pianure femminili, per sognare che l’uomo esiste.