Di tutti gli addii cui siamo costretti nel dolcissimo errore della vita, ricordo la minuscola stagione degli addii della scuola elementare che ho frequentato a Bari.
In quinta elementare dissi addio a molte cose: al libro di lettura, al sussidiario, alla pagella grigia istoriata di caratteri eleganti che decretavano il valore dei nostri saperi e la nostra condotta, al bidello Ciccillo, all’Edificio scolastico Garibaldi, alle liquirizie fatte a striscia arrotolata intorno al confettino verde di anice, al mio compagno di banco Peppino, al pennino del Re, all’inchiostro violetto, al dettato, alle poesie «a memoria», al mio amatissimo maestro Cataldo Mastromauro che mi insegnò a recitare e che considerava la grammatica italiana una creatura degli dei. Alla focaccia.
Ma, soprattutto, dissi, dicemmo tutti, addio al grembiule nero, al colletto bianco, al fiocco azzurro. E, dimenticavo, dissi addio ai principali giorni della formazione umana. Dopo è tutto costruito su quei meravigliosi cinque anni della Scuola Elementare. L’età, la scolarizzazione (quale orrenda parola!), l’istruzione media ci emancipavano dalla casta uniforme infantile con quella sua pretesa «unisex» e con quella sua severità del nero addolcita dalla malizia piccola del fiocco azzurro. In tanti praticammo le varianti del fuori ordinanza obbligando mamme e zie a ricamare nome e cognome sul petto, a sinistra, come un’insegna araldica e in tanti pretendemmo di aggiungere, in numeri romani la classe frequentata.
Questa aggiunta trovava resistenza per via del fatto che il grembiule, magari con ardite elaborazioni e aggiunte, doveva servire per altri anni del cursus honorum delle scuole primarie. Non a caso era stato confezionato o, più raramente, acquistato, «con la crescenza», vale a dire abbondante di taglia al punto da garantirne l’uso almeno per tre anni. Questo comportava, dato il tasso vigoroso di sviluppo di quell’età, anche nel magro dopoguerra di oli di fegato di merluzzo e Jodarsolo e pane e pomodoro, che noi portammo il grembiule giusto di taglia sì e no per un paio di mesi sui cinque anni delle elementari. Dunque la scritta ricamata della classe e della sezione era più vivace di colore perché aggiunta di fresco.
Le compagne di scuola erano vestite col grembiule bianco e avevano, spesso il fiocco rosa. La distinzione istigava le nostre ingenuità a individuare la «differenza» a cui i Francesi rivolgono segni di gratitudine.
Le bambine portavano il grembiule bianco, forse, solo per i primi due anni e, poi furono autorizzate a vestire di nero lucido con eleganti colletti bianchi ricamati e a loro fu consentito, raramente, da qualche maestra rivoluzionaria di variare il colore del fiocco. Loro, le bambine, esibivano un fioccone vaporoso, noi, i maschietti quasi ci vantavamo di averlo striminzito e logoro come una bandiera di combattimento. E non mancavano, infatti le occasioni marziali di scherma con le righe in cui il grembiule era indossato alla rovescia e, cioè, come un mantello sulle spalle cosa che dava una certa soldatesca eleganza.
Ma c’era un valore in quel grembiule di cui, oggi, un certo assessore o, che so io, un dignitario di amministrazione scolastica di cui mi sfugge il nome (e me ne scuso), mi fa ricordare, tentando di tornare a imporlo agli studentelli: era uguale per tutti. Una grande idea, una salutare misura. Naturalmente, non se n’è fatto niente.
Si, il grembiule era un’uniforme. E, come tutte le uniformi, non poteva, né doveva segnalare disuguaglianze sociali o di condizione. Il grembiule metteva al riparo dallo scherno l’indigenza, i gomiti lisi, la monotonia del maglioncino, la povertà dell’abbigliamento «civile» e non consentiva esibizionismi, défilé, esternazioni di censo attraverso il vestito ai più fortunati. Era uguaglianza davanti alla maestà della Scuola. In quelle aule fredde e spoglie arredate da banchi di legno stagionato e una lavagna consunta, quasi sempre, con la cattedra issata su di una pedana autoritaria, eravamo tutti uguali quanto a diritti, doveri, pantaloni e giacchetta. E grembiule.
Non come succede oggi: la scuola, arresasi alle pretese dell’immensa boutique di massa del consumismo cretino e famelico, è il primo luogo in cui si manifesta la disuguaglianza e la competizione. Anche attraverso il vestiario.
D’altro canto a studenti sparatori, pugilatori, pistoleri, con mandanti, più che genitori, questa va bene. La collaborazione tra scuola e famiglia è tramontata, anche nei dettagli. Le differenze di classe che, prima, consistevano solo nella gerarchia didattica, oggi, sono marcate, vagliate, approvate, sul piano socio economico. La collaborazione tra scuola e famiglia che era una vera alleanza, tramonta in una confusione amara.
Ho quindi. non solo. nostalgia dell’età bella del grembiule nero col nome ricamato in rosso o bianco e la classe indicata in numeri romani, ho rimpianto di quel segno di parità sociale, segno piccolo, s’intende, ma che a me, come a tanti è rimasto, ve ne sarete resi conto, nel cuore.