«Voi mi amate, non è vero, Roderigo?». Roderigo non rispose. Tacque dopo un sospiro eloquente e meditato. Si sentiva un dolce stormire di fronde, il lontano, lontanissimo latrare di un cane, poi neanche quelli. E, infine, dopo un silenzio che sembrò durare un’eternità, si udì la voce di Roderigo che bisbigliava: «No (pausa), non posso (pausa), lo sapete bene, Eleonora, che non posso e (pausa lunga), non posso e non devo. (Pausa lunghissima in cui “sembra” di sentire il respiro dei due). E non dovete neanche voi». Si risente il fruscio dei rami accompagnato, questa volta, da un esitante canto di cicale, si avverte il caldo afoso della campagna soleggiata e arsa in certe plaghe lontane.
Eleonora balbetta piano «Non dob...(pausa mentre tormenta il pizzo del suo fazzoletto turchino? ) ...biamo» (piange silenziosamente). Roderigo si allontana dalla finestra e con passi fermi che risuonano sull’impiantito di legno guadagna l’uscio, lo spalanca e si avvia verso lo scalone di marmo lasciando dietro di sé il tintinnio della sciabola e la voce che risponde confusamente al saluto del valletto che avverte «La carrozza, signor conte, è pronta sul retro».
Queste ultime parole si confondono con la Romanza del Concerto No. 1 in mi minore per pianoforte e orchestra di Frédéric Chopin. La voce perfetta, rotonda in impeccabile dizione, riannunciò: «Abbiamo trasmesso il secondo atto de…».
Era la Radio. Tutto questo, nel ricordo. Della Radio. E, se l’esitante congedo tra Eleonora e Roderigo, non fu detto con queste parole, fu scandito da quelle pause, da quei rumori. Da quei silenzi. Anche questo mi insegnò la Radio: il silenzio motivato, eloquente. Alla lettura ti sfugge, il silenzio, annullato dal meccanismo dell’apprendimento. La parola, interiorizzata, scorre veloce e tende a perdere colore annidandosi nel palpito privatissimo del cuore quando il cuore non è pigro. Ma, ecco, il biancore del silenzio ci venne restituito dall’ascolto. Della Radio, più ancora che dalla scena. Perché in teatro tu puoi «riempire» la pausa delle voci «guardando» corpi, movimenti, luci e immagini e non «vedi» le emozioni, le fronde che stormiscono, il cane che latra lontanissimo, la sciabola che tintinna. Non «vedi» l’eloquenza dei passi scanditi sul pavimento di legno di quercia (mi raccomando), non vedi l’ansimare del sospiro che tormenta il pizzo cilestrino.
Non ricordo chi fossero Eleonora e Roderigo, né da quale scampolo di languori della scena ottocentesca il mio ricordo li abbia tratti, non ricordo la vicenda e neanche come andasse a finire. Oggi ancora mi interessa ma, forse, mi importò molto allora, in quegli anni Cinquanta in cui imparai ad amare la Radio. E questa lezione impartii ai miei studenti universitari come dimostrazione della grande varietà di narrazione fantastica: li invitai a descrivere per immagini quello che avevano ascoltato nello scampolo di resoconto narrativo ascoltato alla Radio e di fornirmi il resoconto individuale di allestimento teatrale. Ebbene, non ci fu una narrazione uguale ad un’altra. Ogni studente inventò Roderigo, Eleonora, l’epoca, l’ambito scenico, il palazzo, le scale, la carrozza e qualcuno di quegli spettatori della fantasia provocata, arrivò a completare con un dialogo quello che ascoltando la Radio avevano immaginato. Qualcuno indicò la razza del cane abbaiante. Tutti approvarono la scelta del concerto di Chopin. Significativo che gli autori fossero riusciti a comunicare la pertinenza teatrale di quella scelta. Allora come adesso tengo stretta a me la lezione sul silenzio che mi fu ricordata da Eleonora e Roderigo.
Anzi, oggi, nel fragore inconsulto delle immagini, nel rumore che fanno, disordinato e pazzo, mi piace esercitare il diritto di riappropriarmi del silenzio e di rivendicare dalla Radio il «Restauro» di sé stessa. Che la smetta, insomma, di scimmiottare la televisione rinunciando al suo specifico linguaggio e alla sua lingua naturale. Ho il diritto di chiedere alla radio del servizio pubblico, alla vecchia, cara Radio della Rai (RadioRai) sbrigativamente di continuare nella sua funzione insostituibile, di farla finita con l’inutile gara verso il peggio con le radio commerciali come fa talvolta con musica inconsulta e un insopportabile chiacchiericcio riempitivo. Per non parlare della radio che di cui «si vede» chi la fa, chi parla, chi si agita.
Riempitivo, appunto, riempitivo di ogni pausa di silenzio che minacci il cammino rumoroso del rumore, del vaniloquio. Con in mano l’onnipresente telefonino.
Non reclamo di riascoltare il finale della commedia di Eleonora e Roderigo, saranno nonni felici a questo punto. Reclamo di poter ascoltare la lingua nel linguaggio, la voce umana nei suoni, le parole e la musica. Comprese le parole e la «musica del silenzio».