Amiche lettrici e amici lettori. Quello che state per leggere è comparso già qualche anno fa sulla «Gazzetta». Rileggendolo ho trovato che fa bene alla salute. Le ragioni dell’attualità sono riposte in un menu eccezionale. E regionale. Buona rilettura!
Tempo di mangiate estive con il sollucchero della nostra straordinaria cucina pugliese. Verdure deliziose, pesci dorati di croccanti fritture in olio d’oliva, pane profumato di forno a pietra, formaggi insuperabili e burrate, mozzarelle immacolate. E capretti, ragù di mammà, in competizione con quello di Zia Caterina. Frutta zuccherosa!
La carta dei vini procede verso l’eccellenza: bianchi autorevoli e pregiati, rossi leggendari come il primitivo, ormai incoronato dal sommelier autorevole. Salute. Mi viene in mente il Seneca conviviale che citava la luxuria, l’eccesso, per indicare grandi conviti e cene esagerate e libagioni solennissime. Fin dall’antichità omerica la cucina presiedeva al piacere della comunicazione conviviale, del banchetto dove si riconosceva, celebrava, onorava, seduceva: l’ospite, il dio, il forestiero, la donna. C’è, è vero, chi mangia per nutrirsi, la maggioranza, ma c’è chi mangia per eccedere nel piacere. Poco stoico, poco consigliabile.
Allora, propongo un invito, non a pranzo, ma alla calma e alla flemma. Il latino, non così solenne come quello di Seneca, il Latino della Scuola medica salernitana, ammoniva: «Primadigestiofit in ore» Traduzione ginnasiale: «La prima digestione avviene in bocca». Orribile. Meglio sarebbe volgere quella che è anche una constatazione e non solo un monito prudente in un «Prima di tutto si digerisce masticando». Resta ripugnante. Azzardiamo un «Per ben digerire occorre ben masticare». No, sembra un motto di Bertoldo. Ecco, ho trovato: «Ricorda di masticare bene e a lungo perché la buona digestione comincia in bocca». Ma che dico? È prolisso e sgradevole.
Non c’è che dire, ce lo teniamo in latino con quel fit in ore svelto ed elegante.
Resta la saggezza pudica del motto salernitano che eredita prudenze più antiche che abitavano in Italia. Prudenze che suggerivano la calma e tessevano l’elogio della lentezza quando si tratta di mangiare. Calma e lentezza che erano consigliate con fermezza e calore anche dalle zie sapienti. «Quando si mangia si combatte con la morte» minacciava mia zia Caterina, questa volta d’accordo con mia madre. Non pensavano, allora, in quegli anni beati di naturalezze alimentari, alle schifezze che mangiamo oggi, ma m’imponevano il silenzio durante la masticazione considerandola preziosa e delicata fase della digestione. Appunto. Mamma e zia Caterina, ne facevano anche un fatto di buona educazione, giustamente.
I frati nel refettorio mangiano. Mangiano lentamente e tacciono. Si tratta di severità cenobitica, ma anche di gusto sottile per la piccola gioia dello sfamarsi senza ingordigia che è una mite forma di preghiera. E il Creatore ha sicuramente piacere di questo. Non si dice del cibo buono e genuino che è una «Grazie di Dio»? Quella grazia di Dio che bisogna rispettare e custodire senza abusi e sprechi? Ma si dice ancora così? C’è ancora qualcuno che usa questa locuzione rispettosa del cibo visto non come cuccagna gratuita, ma come frutto di fatica e pazienza? Per non parlare della sublime arte della cucina. Quelli dell’ingurgitamento fine a sé stesso la conoscono?
Non credo, giacché il mangiare velocemente è considerato comodo e utile anche se non sappiamo, se non di rado, che cosa, veramente, stiamo mangiando. Sarà Grazia di Dio? E se lo è, perché la mangiamo in piedi, ingurgitando velocemente enormi bocconi mandati giù con i calci della nota bevanda gasata americana?
Si chiama «Fast food». Traduzione: cibo svelto. Che orrore. È una contraddizione in termini oltre che un affronto alla salute: questo è un modo per saltare a piè pari la prima, preziosissima digestione.
È vero, pressati da ritmi disumani e dal cottimo frenetico della vita quotidiana, non sempre abbiamo il tempo necessario al meditato pranzo e, allora, io consiglio la tecnica dei contadini di un tempo: ad una cert’ora si fermavano, si stiracchiavano, si sedevano, dove capitava, ma si sedevano, schiacciavano una preghiera di ringraziamento al Padreterno e lentamente davano di piglio al grande e rassicurante pane con companatico (ogni giorno diverso, con fantasia: dalle verdure al salame, alla impagabile frittata) non rinunciando ad innaffiarlo con del buon vino. Poco, ma buono. Poi aspettavano in silenzio o parlando a bassa voce. La digestione, i contadini lo sapevano, lavora per noi, va rispettata. Il saggio latino della Scuola medica salernitana ha imparato da loro. Loro che sapevano concedersi anche la dormitina postprandiale: breve, mi raccomando. E solo dopo aver passeggiato un po’.«Post prandium deambulare decet»avverte ancora il saggio medico salernitano che mai si sarebbe alzato da letto dopo tre ore di «pennica», avendo detto: «Vado a poggiarmi».