Mi mettevano in porta. Proprio così: non decidevo io, ma la squadra. «Mirabella sta in porta». Ho girato parecchie scuole d’ogni ordine e grado, la più parte in Puglia, e ho sempre giocato in porta. Si trattava del football approssimativo dell’ora di ginnastica scolastica o di quei tornei calcistici che sostituivano le supplenze di Latino. Si materializzava un pallone e i due più bravi per universale ammissione, ovviamente nell’arte del calcio, «facevano il tocco» per comporre le squadre. Io non venivo scelto che alla fine e arrivava l’ingiunzione rassegnata che mi destinava all’estrema difesa.
La porta consisteva di due cumuli di libri. Il benemerito Rocci e il severo Gheorghes-Calonghi, austeri vocabolari di Greco e di Latino che servivano alla bisogna per l’imponenza e la solidità, più qualche cartella. In inverno s’aggiungevano i cappotti. Io me ne restavo lì inoperoso fino a che l’azione non s’avvicinava, poi tentavo di assolvere il mio compito senza successo. La squadra cui toccava in sorte il portiere Mirabella, il più delle volte, non aveva speranza di vittoria se solo la palla filtrava nella sua area. Da qualche compagno non del tutto illetterato fui soprannominato «Umbertosaba» dopo che la Professoressa ci aveva dato il compito d’imparare a memoria la bella e struggente poesia Goal. Più professionalmente il professor di educazione fisica sentenziò rassegnato: «Non tieni proprio la concezione del pallone».
Era vero. Non amavo il gioco del calcio e perciò non lo sapevo praticare o non lo amavo per via dell’accertata e dimostrata imperizia? Questa la domanda che mi ponevo spesso imbambolato tra i vocabolari e i cappotti. Decisi che non me ne «fregava» niente del pallone e, da quel momento, dopo l’investitura ad estremo difensore di inizio partita, me ne andavo beatamente a bighellonare ai bordi del campo parlando di politica con qualche altro sparuto renitente privo della «concezione del pallone». Per me fu una liberazione e per le squadre un netto miglioramento dei risultati: la porta vuota s’opponeva meglio del portiere Mirabella.
La ragione è che io, esiliato lì, tra quei cappotti e quelle cartelle, contavo sulla distrazione dei giocatori, i quali, scevri da strategie e dislocamenti tattici, si affollavano vocianti intorno al pallone, e intanto approfittavo per restringere con furtive pedate lo specchio della porta da me indifesa, peraltro, in modo tale da complicare la vita ai bombers della squadra avversaria. Io, non solo non ero in grado di placcare qualche tiro veniale, come giocassi a palla prigioniera, ma non sapevo usare i piedi, per lo meno non per tirar calci alla sfera. Con le scarpe pulite. E chi avrebbe poi sopportato la professoressa di Greco coi suoi sarcasmi su certi atleti infangati e ansanti, nell’ora successiva, alle prese con gli aoristi umidi di fango sulle pagine del Rocci? Gli atleti continuavano per tutto il tempo le polemiche da spogliatoio tra un banco e l’altro, sfottendosi, recriminando, decantando le prodezze dei goleador, segnatamente di uno di questi che si chiamava Pinuccio che non sbagliava un dribbling, era veloce come un furetto, micidiale negli a solo a centro campo, implacabile in area di rigore. Riderebbe se fosse ancora tra noi, come ebbi modo di ricordare anni or sono. Faceva il medico pediatra in un paese della nostra provincia ed era un galantuomo, e oggi gli chiedo scusa di aver ristretto la porta coi calci per rimpicciolire il bersaglio che non avrei saputo difendere.
Giocava benissimo Pinuccio, con maestria innata. Era bravo anche negli studi, e in campo era leale, coraggioso, onesto. Ricordo che gli brillarono gli occhi quando ci fu assegnato un tema sulla poesia di Saba Goal, quella che principia con il verso: «Il portiere caduto alla difesa contro la terra cela la faccia…». Io lo evitai e mi rifugiai in una parafrasi del Carducci dei «cipressetti», ma lui avrà sicuramente scelto Saba. L’onesto e simpatico Pinuccio alle prese con l’onesto Saba e con l’onestissimo suo portiere che nasconde il viso per non vedere il pallone che, inesorabilmente, entra nella porta, la porta smisurata del vero campo da gioco, non la risicata porticciola della mia codardia. Io mi pento di questa, ma io non sapevo giocare, accidenti, e quindi neanche mi piaceva. Ricordo che più volte ricusavo il ruolo di portiere, anzi, come si diceva «d’ cudd ca ste in port» e mi allontanavo a ripassare Platone.
Comunque, questa confessione estiva vuole riabilitarmi con Pinuccio e con tutti gli altri che in quelle partite ci mettevano gioia e coraggio. Del resto, anche con le porte rimpicciolite si divertivano lo stesso. A proposito: scoprii che anche il portiere avversario faceva la stessa cosa con i suoi cappotti. Non mi dispiace d’esser stato messo in porta nelle onorate e oneste squadre del mio passato scolastico. Avevano ragione, non sapevo giocare e loro sì, erano bravi e nulla li avrebbe corrotti e costretti a farmi giocare. In porta c’erano i libri. Libri di scuola, non libri contabili.