Domenica 21 Settembre 2025 | 20:56

Schizzi di schiuma: ode al Mare che fu

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Michele Mirabella

Dal Nuovo Testamento a Tomasi di Lampedusa, quando l’acqua era senza petroliere, acciaierie e alghe tossiche

Domenica 27 Luglio 2025, 11:30

Non ci sono dubbi, l’acqua del mare c’era già da prima. Prima delle barche, delle navi, delle petroliere, dei motoscafi, degli yacht, delle portaerei. Prima degli stabilimenti accatastati sulle spiagge che sono di tutti per consentire a pochi di far soldi. E l’acqua c’era anche prima della cementificazione delle rive, prima degli stabulari per cozze e gusci vari, prima che qualcuno pensasse di usarla per scrollare dalle insidie della fusione i liquami delle acciaierie e discaricare la mota in acque marine. Spero che non si pratichi più queta miscela.

C’era l’acqua prima che San Francesco la lodasse come umele, pretiosa et casta. C’era, l’acqua, prima delle bottiglie, delle anfore e dei vezzosi nomignoli sulle etichette. L’acqua. E Dio la divise con il firmamento: acqua di sopra e acqua di sotto. Brutalmente rendo conto del Genesi che, poi, racconta mirabilmente; «Dio disse: “Si raccolgano in un luogo solo le acque che sono sotto il cielo e appaia l’asciutto”. E così fu. E Dio chiamò Terra l’asciutto e chiamò Mare la immensa somma delle acque. E Dio vide che ciò era buono».

Quando, da bambino, mi venne incontro il Vecchio Testamento, mi colpì la preesistenza delle acque e quel divino chiamare Terra tutto quello che non era Mare. L’ingenuità esegetica intuiva un’importanza capitale delle acque che si degnano di scoprire l’asciutta terra e circondarla, contenerla. Più tardi, scoprii i molti modi in cui si può studiare e conoscere il mare che è Mare, ma si può anche chiamare Oceano e Pelago e, con mitologica metonimia, anche Poseidone o Nettuno. E, noi studenti, conoscemmo il mare. Ricordate Senofonte e la sua «Anabasi». A scuola, del resto, se, prima, ci ammannivano almeno il suo riassunto e racconto, oggi neanche si affaticano a spiegare quel sospiro collettivo che si mescolò con la brezza salmastra e rese lacrime agli dei dagli occhi abbacinati di sole dei mercenari greci. Quelli della scuola di oggi. Impediti dal più catastrofico (ricordate l’etimologia?) disegno di smantellamento della cultura mai concepito sulle sponde del mare nostrum. Anch’io, arrivando dalla città sulle miti sponde di quella porzione poetica di Adriatico che San Nicola aveva intravisto dalle nebbie aurorali, transitando al largo, dicevo, in cuor mio, «il mare, il mare!». Era quella mite plaga tra Palese e Santo Spirito. Quest’ultimo soave villaggio di pescatori e invaghiti viaggiatori e turisti, oggi oltraggiato da riletture urbanistiche e architettoniche brutte e ridicole.

Nel mio minuscolo armeggiare con l’Adriatico di casa mia, la Puglia, armeggiare, tutt’al più balneare, restai sempre intimidito dalla maestà del Mare e, anche se mi ci facevo il bagno estivo giocoso ed infantile, lo guardavo sempre con rispetto e devozione. Del resto quella dove io facevo giochi di schiuma e di esitanti perlustrazioni con maschere e pinne era la stessa acqua che avevano solcato Ulisse ed Enea in mitici vagabondaggi sul crinale trasparente di divine profondità. Il Mare dei libri e dei miti ancora oggi non è mai estraneo alla percezione che ne ho e all’ammirazione che sempre provo quando lo lambisco con il corpo esitante o con lo sguardo avido di orizzonti. Non mi riesce, infatti, di praticare svaghi puri e semplici o viaggi distratti. Appena vedo onde, sia da spiagge compiacentemente facili, sia da murate di barche pacifiche o di navi in vacanza, sia da promenades ariose e civettuole, riservo a Poseidone il timido saluto di un pensiero votivo. Sarà per questa specie di timore reverenziale che non riesco a stabilire con il Mare cameratismi balneari e trovo impudenti i combinati disposti di tintarelle e acrobazie di orribili, vandali e micidiali motoscafi affilati come pugnali. Tempo fa, partito in crociera per le isole greche, portai con me la Teogonia di Esiodo e l’Odissea, due consunte edizioni scolastiche. Durante un notturno di salsedine e brezza profumata, nell’Egeo, pretesi di leggere a voce alta i versi in un Greco traballante e scolastico, giocando, sotto sotto, col sogno che già fu del professor Laciura del sublime racconto Lighea di Tomasi di Lampedusa, di farmi ascoltare dalle misteriose Oceanine che mi auguravo, sarebbero emerse dai loro giochi divini con tritoni e sirene per riconoscermi come amico, anche se, io, nuoto malissimo, come un cane frettoloso.

Non emerse nulla, arrivarono solo robusti schizzi di schiuma salata. Rischiai il ricovero nell’infermeria della nave e fui guardato con attenta curiosità e un po’ di diffidenza da tutti passeggeri fino allo sbarco a Santorini. Tra le pagine dei due libri è rimasto il sale di quella brina volatile che si alza fino ai ponti più alti quando il mare è vivace.

Li ho riaperti, giorni fa, sulla esigua riva di Santo Spirito e ho riprovato. Niente da fare. Il mare è rimasto muto. Si è levato un gabbiano clamoroso e urlante e, rabbuffato da un alita improvviso di maestralino, ho rischiato lo schizzo sulla faccia di una famiglia di alghe tossiche.

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