Sabato 06 Settembre 2025 | 23:56

Lo sciocco tiranno che guarda dall’alto

 
Michele Mirabella

Michele Mirabella

I veri magnanimi sono quelli che saggiamente osservano compunti e discreti. E attenti

Domenica 20 Luglio 2025, 15:21

«Guardare dall’alto in basso», se non è gesto attribuibile alla statura è antipatico. È tipico di chi si considera migliore, più potente, più ricco, più forte. Se è di stazza modesta, l’ambizioso antipatico, lo sguardo e le smorfie cercheranno di compensare l’handicap del parlare, della gestualità e dei modi. Forse l’etimologia di «altezzoso» discende da questo sguardo dall’alto che vuole accreditare un’istintiva gerarchia: in alto, per luogo comune, sta il trono, il balcone, il podio, il comando, il soglio, il cielo degli dei, la cattedra. Più in basso, stanno i sudditi, i postulanti, i seguaci, gli schiavi e brulicano gli ultimi e i diseredati.

I veri magnanimi non guardano dall’alto in basso, col sopracciglio sollevato, ma saggiamente osservano compunti e discreti. E attenti. Se sono persone. Perché, qualche volta, guardare dall’alto è istruttivo, mettere una lontananza panoramica tra intendimento e cose, oggetti, uomini e umane vicende, può essere utile e facilitare quella che si chiama la «visione d’insieme». È giusto lodare la presbiopia della percezione. Ci consente di largheggiare nelle riflessioni e di praticare l’osservazione acuta e puntuale e di ampio respiro che, sola, è condizione dell’intelligenza delle cose. I despoti illuminati, questo facevano e la malinconia loro attribuita, forse, era istigata dalla coscienza, che avevano, di dovere guardare dall’alto, spesso con un sospiro. Solo che gli illuminati guardano dall’alto l’umanità nella sua fatica di stare al mondo con gli altri e, possibilmente, anche per gli altri. Gli altri che intuiscono che il termine «illuminati» designa un privilegio che si conquista con la fatica della ragione.

Ma di questo non è capace lo sciocco e arrogante tirannello che «mantiene le distanze» per non confondersi con il prossimo e guarda dall’alto, in genere, dei suoi soldi. E pensa che chiunque voglia un mondo più giusto, lo voglia perché invidia quel suo spudorato punto di osservazione presbite del mondo. E pensa che i giudici che dovessero sindacare le sue eventuali malefatte vogliano solo mettersi più in alto di lui. Ma non voglio continuare a offrirvi il sospetto che io alluda a Trump. Non lo nego.

Ma la digressione, eccola! Parlo di un «guardare dall’alto» particolare: se usate l’aereo per arrivare o partire da Bari, guardate il mare. A me è successo di scrutarlo con ansia, ma a malincuore. Temo sempre di vederlo più sporco, più povero, più malinconico. È l’inquinamento, il saccheggio, l’aggressione che gli portiamo. Ma che dico? Che gli «portano». Non voglio arruolarmi tra questi mascalzoni, tra questi delinquenti che vogliono lasciare una traccia drammatica del loro effimero ma esiziale soggiorno sulla terra. Li disprezzerò con un mio sguardo dall’alto. E dall’alto so già che, la prossima volta, mi affannerò a scrutare le acque con languore affannoso perché so che sono ancora più povere. Le acque della mia terra, del mio Adriatico. Non ci sono più, o quasi, ricci di mare. Dopo i datteri, le umili «pelose», i pesci più pregiati, perfino le alici, ecco, spariscono i ricci. Come lasceremo questo mondo avuto in prestito? Lo lasceremo imbrattato e imbruttito dalla nostra presenza e dalla nostra incoscienza.

Ma che dico? Dalla loro presenza dannosa. È proprio il caso che guardiamo dall’alto in basso queste tracce della storia dell’uomo e della vita del pianeta.

L’anonimo antenato dell’età della pietra, arzigogolando nei rigori della caverna, s’appoggiò con la mano aperta sulla parete. Nel bagliore del falò, vide il suo palmo impresso sulla roccia con il velo di polvere è registrò la prima incongruenza: l’immagine speculare, il reciproco simmetrico. Quella mano estranea al corpo, ma, pure, dal corpo generata, dimostrava un atto intenzionale. Ma quello era testimonianza: l’arte concettuale che nasce prima dell’arte come descrizione. Più tardi i segni si guastarono e arrivarono le penne biro e i chiodi o le chiavi dell’auto, i petroli, l’immondizia, per lasciare traccia di milioni di «sé» con i veleni con sgorbi, nomi, firme, date, frasi occasionali, giganteschi e orribili «murali», dovunque, anche dove sarebbe meglio non tentare di esorcizzare la propria caducità imprimendo, graffiando, sporcando, rovinando. Alberi, rocce, monumenti, affreschi, case, strade. Molti hanno preteso di aggiungere le proprie tracce insignificanti, ma esiziali, ad opere altrui, molto più interessanti se indenni. È il caso dei vandali di opere d’arte. Cosa li spinge? Forse la paura di finire anonimi nella smemoratezza del tempo. La stessa angoscia che spinse il progenitore a timbrare la grotta di impronte istiga, oggi certe, comunità a distruggere con avidità di morte famelica che può essere spiegata solo dal volersi dissolvere nel futuro. Con la stessa forza della idiosincrasia che hanno per i libri di storia, preparano ossessivamente l’album dei ricordi, orrendi, dei pronipoti.

Guardiamo, dall’alto in basso, un album senza più acque pulite, senza più bellezza, senza più ricci di mare.

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