«Il dolore dell’Italia sarà placato solo dalla punizione dei colpevoli»: l’edizione del 16 dicembre 1969 de «La Gazzetta del Mezzogiorno» è quasi interamente dedicata ai funerali delle vittime della strage di piazza Fontana.
Il 12 dicembre un ordigno è esploso nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura di Milano, causando 17 morti e circa 90 feriti. «Milano ha salutato i suoi morti, vittime innocenti della disumana ferocia dei folli criminali di piazza Fontana, ed ora si rimbocca le maniche, torna al suo lavoro, alla sua frenetica attività di sempre. Ma l’aria era pregna di dolore stamane, un’aria scura, umida, fredda, la nebbia che calava su piazza del Duomo e sulle strade vicine a folate, con banchi di ovatta bigia, mentre in alto volteggiavano i colombi che avevano un aspetto lugubre. Forse l’atmosfera ha influenzato la nostra fantasia, ma era proprio questa la sensazione guardando quei colombi nel loro stanco volo tra la nebbia, sulla testa delle migliaia di persone affluite che assistevano ai funerali», scrive l’inviato Italo del Vecchio. Nessuno, comunque, ha osato turbare le esequie: «Milano ha saputo guardarsi bene alle spalle; le migliaia di lavoratori e di studenti che avevano lasciato le fabbriche e le scuole per dare l’estremo addio alle vittime dei dinamitardi hanno fatto muro, e mostrare che i veri milanesi hanno la testa sul collo e la coscienza a posto e che, comunque, non permetterebbero manovre di piazza ai rivoluzionari di professione o a quelli da strapazzo».
Colpisce un trafiletto nel taglio basso della prima pagina: «Ultim’ora: uno dei fermati, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli di 41 anni, ha tentato di uccidersi durante una pausa degli interrogatori lanciandosi, poco dopo mezzanotte, da una finestra del quarto piano della Questura. Il Pinelli era seriamente indiziato, ha detto il Questore. Ancora in vita è stato trasportato al Fatebenefratelli». Poche ore dopo, mentre il giornale è ormai nelle mani dei lettori, l’anarchico Pinelli morirà, innescando un’ulteriore ondata di violenze che contribuirà a macchiare di sangue il Paese per ancora molti anni.
Il 16 dicembre 1979, Anna d’Elia sulle pagine della «Gazzetta» recensisce una mostra, appena inaugurata nella galleria «Nuova Vernice» di Bari, interamente dedicata al pittore Roberto De Robertis, scomparso un anno prima. «1932-1978. Cinquant’anni di storia della cultura artistica barese e pugliese». Nato a Gravina, dopo i suoi studi romani e milanesi, De Robertis non lascerà più Bari. Lo scrittore e meridionalista Vittore Fiore scandisce le tappe fondamentali della carriera dell’artista, molte delle quali percorse insieme: le mostre sindacali, il «Sottano» di Armando Scaturchio, il «Maggio di Bari», l’istituzione del liceo artistico prima, dell’Accademia delle Belle arti poi. «Lui. Roberto, è stato sempre un militante di prima linea», afferma Fiore durante l’inaugurazione. D’Elia auspica l’allestimento di una mostra antologica su tutta l’attività di De Robertis: ci sarà, effettivamente, ma solo alcuni anni più tardi nella Pinacoteca provinciale di Bari. «La tenacia volitiva, ma contratta e silenziosa del maestro è tutta lì, condensata nei suoi quadri: un’orgia di colori-calore. Pittura, la sua, dove la riservatezza e la discrezione cedono all’irruenza irrequieta, golosa e curiosa. Ai più anziani fra i moltissimi, presenti all’inaugurazione brillano gli occhi. Ricordi di storie comuni, i rapporti con la Scuola Romana, le aperture alla cultura nazionale, e lui, Roberto, in prima fila con loro. Nel ricordo delle battaglie comuni, anche l’amarezza del comune destino: in una regione senza storia, poco innamorata dei suoi artisti».
È questa l’amara conclusione di Anna D’Elia: «A stento è possibile ripercorrere, tra lacune e sbalzi, la storia della cultura artistica pugliese degli ultimi cinquant’anni. Solo cataloghi sparsi di mostre, recensioni, articoli. Quando ci sono. Nulla di organico e sistematico. Nulla che ricostruisca i rapporti tra mondo dell’arte e quello della cultura più in generale». Oltre quarant’anni dopo, la situazione è poi effettivamente cambiata? Nel 1979 D’Elia è poco ottimista: «L’impressione che resta è di qualcosa d’incompiuto. Proprio come quella tela, un mazzo di fiori, che De Robertis ha lasciato sul cavalletto, senza aver avuto il tempo di terminarla».