Professor Gianfranco Viesti, economista e saggista, in questi giorni in libreria con il volume Centri e periferie (Laterza, 2021), il recentissimo Rapporto Istat sulla produttività fotografa una situazione allarmante: quasi la metà delle imprese italiane è «strutturalmente a rischio», soprattutto nel Centro-Sud, e solo l’11% , mostra solidità. Rischiamo di sprofondare in una crisi senza ritorno?
«La situazione è ancora molto incerta. Difficile fare previsioni senza conoscere tempi e intensità della ripresa. Di certo il quadro è preoccupante: la durata delle chiusure e il conseguente calo dei consumi sono stati lunghissimi. E non possiamo escludere ulteriori provvedimenti che producano altri fallimenti».
Da subito il Governo ha messo in campo la politica dei ristori. L’unica possibile?
«Senza dubbio era l’unico modo. È esattamente quello che è stato fatto in tutti i Paesi del mondo per impedire la scomparsa di aziende potenzialmente sane. Da noi, considerando lo spazio di bilancio disponibile in Italia, la manovra è stata molto forte anche se meno rispetto ad altri Paesi come Germania e Stati Uniti».
Qual è, se c’è, il limite di questo tipo di provvedimento?
«Sono misure difensive, ora invece servono misure di rilancio. E qui sta il problema: quando smettere con le prime e iniziare con le seconde? Non abbiamo precedenti cui ispirarci quindi la scelta è difficile. Se smetti troppo presto metti in pericolo le imprese, se smetti troppo tardi arrechi un danno eccessivo alle finanze pubbliche. Molto dipenderà dalla ripresa che, ad esempio, la scorsa estate era stata più alta delle previsioni».
C’è poi il problema dei comparti industriali che non hanno beneficiato di ristori ma che hanno comunque subito un forte calo degli introiti con il rischio di perdere posti di lavoro. Qui come si può intervenire?
«Vero, alcuni settori economici non sono a grande rischio ma soffrono un notevole calo della domanda. Si può lavorare su due fronti: liquidità e cassa integrazione. Gli ammortizzatori sociali hanno avuto e hanno un ruolo decisivo ma è anche importante garantire che le situazioni di liquidità siano distese, cioè che le imprese non siano chiamate a uscite di cassa molto forti nell’immediato».
Finora misure difensive e nodi critici. Il rilancio da dove passa?
«Dal Piano nazionale di ripresa e resilienza che, però, non è noto. E questa mi pare una cosa estremamente negativa perché il documento è cruciale. In pratica, ridefinisce tutte le politiche pubbliche italiane del prossimo decennio. Il problema è che noi abbiamo in mano solo il testo Conte ma sappiamo che il Governo Draghi sta lavorando a un aggiornamento che sarà presentato alle Camere il 26 aprile per poi essere inviato a Bruxelles il 30».
Il pericolo qual è?
«Che ci si trovi con una sorta di pappa pronta senza possibilità di discuterla e di emendarla. L’esecutivo avrebbe dovuto presentare un testo intermedio per potersi confrontare con le forze in campo. Anche perché abbiamo un Governo senza un chiaro indirizzo politico e quindi in quel testo potrebbe esserci davvero di tutto»
Vale anche per il Sud?
«Soprattutto per il Sud. Non sarebbe la prima volta che, dopo tante affermazioni in favore del Mezzogiorno, poi nelle carte si trova qualcosa di completamente diverso. Sono molto preoccupato».
Proviamo a portare queste preoccupazioni su un piano tecnico. Dove si rischia di più?
«Il problema non sono le grandi linee ma i dettagli. Esempio: il Superbonus 110%. Dati alla mano, c’è una forte concentrazione di domande al Nord e per edifici di alto valore. Bisognerebbe modulare lo strumento in modo tale che sia accessibile alle fasce meno abbienti della popolazione e utilizzato anche per le abitazioni in affitto. I dettagli sono importantissimi. Per non parlare delle politiche industriali, dall’auto alle produzioni energetiche. Tutti temi di interesse meridionale di cui non mi sembra ci sia traccia. Per questo serve un dibattito collettivo».
Può indicare le tre priorità su cui il Piano dovrebbe concentrarsi in riferimento al Sud?
«Città, scuola e sanità. Soprattutto il primo punto è dirimente: nel Piano ci sono tantissimi interventi che ricadono nelle aree urbane grandi e medie. Parliamo di mobilità sostenibile, efficientamento energetico , politiche sociali, sviluppo culturale. È essenziale che tanti di questi interventi siano previsti per le città meridionali e soprattutto che siano collegati fra loro, cioè che alle città si chiedano dei programmi che mettano insieme tutte queste misure a partire dalle periferie. Se si interviene sul quartiere Libertà di Bari lo si faccia contemporaneamente su tanti fronti e non puntando solo su un aspetto»
C’è poi il problema dei diversi tipi di fondi cui attingere. Un vero ginepraio. Mettiamo un po’ d’ordine?
«Il Piano di Conte, come quello di Draghi, non usa solo i fondi del Next Generation ma programma anche una parte dei fondi strutturali e le risorse nazionale del Fondo sviluppo e coesione. Giusto o sbagliato? Giusto, ma pericoloso perché si rischia che i progetti per il Sud siano prevalentemente quelli fatti usando già le risorse che devono andare al Mezzogiorno. Una cosa che pochi sanno è che nel piano Conte ci sono circa 70 miliardi di progetti vecchi, cioè già finanziati, inseriti lì per poter rendicontare avanzamenti all’Ue più facilmente. Il pericolo è che gli interventi del Sud siano prevalentemente di questo tipo. Quando leggo che nel Piano c’è la Bari-Napoli mi preoccupo perché quella è un’opera già completamente finanziata. Quindi abbiamo bisogno di un documento molto trasparente nell’incrocio tra le fonti di finanziamento e le localizzazioni».
Lo avremo?
«Nessuno lo sa, è il problema dell’indeterminatezza di cui si parlava prima. Il punto è che se non lo avremo si porrà un grande nodo perché è difficile mettere in crisi un governo di unità nazionale. Le due settimane da oggi al 25 sono decisive per partiti, Regioni, Comuni, Confindustria e sindacati per spingere moltissimo sull’esecutivo affinché questi dubbi siano chiariti il più preso possibile».