Bruciano ancora le «lettere» di Dino Campana. Alla fiamma delle «moltitudini» di Walt Whitman, al sole delle rose sbocciate e poi sfiorite per amore di Sibilla Aleramo. All’ombra della solitudine, della follia: certificata eppure indecifrabile come una chimera. Bruciano ancora le «lettere» di Dino.
No, non alludiamo solo al furente e appassionato carteggio con la scrittrice, alle missive piccate verso gli alfieri dei salotti culturali fiorentini: i Soffici, i Papini, che lo fecero «impazzire» smarrendo il manoscritto del Più lungo giorno. Campana fu costretto a riscriverlo nel 1914 e nacquero i Canti Orfici, presaghi di guerra e di sangue nel colophon, dove torna la poesia di Whitman: «Erano tutti intorno al giovane, coperti del suo sangue». Per «lettere» alludiamo all’opera campaniana, destinata a bruciare come fiamma perenne di calore ed energia, contrappasso agli elettroshock nel manicomio fiorentino di Castelpulci, dove fu rinchiuso definitivamente nel 1918 e dove rimase fino alla morte nel 1932: «Divenni Dino Edison. Una scintilla elettrica perduta nel magnetismo universale».
Un contributo nuovo e importante lo offre il Meridiano Mondadori in cui è raccolta L’opera in versi e in prosa di Campana. Curato dallo storico della letteratura italiana Gianni Turchetta, tra i massimi studiosi di Campana, il libro mette in luce il ruolo del poeta, collettore delle istanze espressioniste e delle avanguardie italiane ed europee e costruttore di un ponte con la tradizione classica, attraverso il mito di Orfeo, l’orfismo come viaggio nel mistero, nella rivelazione per immagini
(soprattutto femminili: dalle prostitute a Ofelia, sotto i portici come agli inferi). Il Meridiano ribadisce la qualità della poetica campaniana, l’unità dei Canti Orfici e la sua immunità da frammentarismi riconducibili al disagio mentale. Campana, riflette Turchetta, è arruolabile nella schiera degli artisti (poeti e non) dissipati dai conflitti psichici, dal mancato adattamento a una società che intuiscono autodistruttiva (la Prima guerra mondiale, la crisi dell’identità individuale). L’intellettuale umanistico
è incapace di contrastare la ghettizzazione e l’annichilimento: l’altra faccia dello sfruttamento capitalistico.
Non furono quindi le «lettere» a «guastare» il cervello di Dino per dirla con Guicciardini. Nemmeno la solitudine: debolezza e forza insieme. A proposito, mai descrizione di Campana fu più completa e identitaria – senza volerlo - come quella dei Versi del testamento, (contenuti in Trasumanar e organizzar) di Pasolini: «La solitudine: bisogna essere molto forti per amare la solitudine; bisogna avere buone gambe e una resistenza fuori del comune». Una solitudine che fa camminare «per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani». Da lontano arriva l’eco de La mia Bohème di Arthur Rimbaud: «Me ne andavo, i pugni nelle tasche sfondate; E anche il mio cappotto diventava ideale; Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele». Sembra di vederlo, Dino, errare nelle sue goffe casacche, braccato come «lo scemo del villaggio, il màt», tra Marradi, il paese toscano al confine con la Romagna dove nacque nel 1885, Firenze, Genova e il mondo: l’Argentina,
l’Uruguay, il Belgio, forse la Russia. Poeta-sciamano di tanghi e bordelli, chimere e archi severi, fiori sfioriti, lune torve, zingari e pampas giallastre e notti in prigione, notti delle comete, rievocando il titolo della biografia dedicatagli da Sebastiano Vassalli. Notti e giorni di fogli di via e visite psichiatriche.
Fu il disamore la vera disgrazia, il detonatore della pazzia, al netto della genetica: «Dunque sappi – scrive Dino all’amico Aldo Orlandi il 9 novembre 1917 – che mi sento il più tristo fanciullo della terra, che tutte le sue mamme hanno abbandonato». A partire dalla madre, Fanny. Fu vera follia quella di Campana? Oggi possiamo dire che fu vera gloria poetica, a futura memoria: il Montale dei «poeti in fuga» e il Caproni della Litania genovese gli devono tanto.
Brucia, infine - continua a bruciare - il carteggio con Sibilla Aleramo-Rina Faccio, raccolto, insieme ai versi, nel Meridiano Mondadori. Rivela la parabola di una relazione splendida, furente, tragica. «Questo viaggio chiamavamo amore» scrive Dino nella poesia «In un momento», col suo bouquet di rose sfiorite: Le mie rose le sue rose. Campana scrisse d’impeto a Sibilla: «Le mie lettere son fatte per essere bruciate». Per fortuna le sue «lettere» bruciano ancora di vita: ancestrali, sonore, sincopate, criptiche e luminose, disperate. Nella carne del nostro tempo.