In Puglia il dibattito politico sembra essersi esaurito prima ancora di cominciare. Antonio Decaro, con la benedizione di Conte, ritiene di essere già il futuro governatore: il confronto non verte più su «chi guiderà la Regione», ma su chi occuperà gli scranni di via Gentile. Decaro ha fatto scrivere «OCCUPATO» su due poltrone del Consiglio regionale, quelle a cui legittimamente aspirerebbero Nichi Vendola e Michele Emiliano. In alternativa, resterebbe a Bruxelles. In tal caso vi sarebbero altri autorevoli candidati, tutti ampiamente favoriti nei sondaggi. Ciò dimostra che, quando la politica sa andare oltre le vicende personali e i protagonismi, si affermano la forza delle coalizioni e dei partiti, che sopravvivono agli uomini. Esattamente come scrive Decaro sulla sua pagina, in un post che leggo mentre redigo queste righe: «So bene che nessuno è indispensabile, a cominciare da me». Se fosse un bagno di umiltà, sarebbe un buon viatico per la soluzione del problema.
A questo punto resta l’inquietudine generata dal clima di diffidenza che si respira nel centrosinistra pugliese dopo vent’anni di potere. Decaro vuole una cesura netta con il passato e, pertanto, si oppone «fisicamente» a considerare Emiliano e Vendola compagni di viaggio, sia pure in posizione defilata. Al bando il politichese: l’intera comunità pugliese esige di conoscere le vere motivazioni. O è accaduto qualcosa di inconfessabile, oppure si tratta di una «conversione adulta», un fragile appiglio per smarcarsi da un sistema che lo ha visto protagonista in prima persona. Egli afferma di voler essere un «presidente libero». Ma libero da cosa e da chi? Negli ultimi anni non si sono visti presidenti incatenati; semmai, l’articolo 122 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/1999, ha previsto l’elezione diretta del presidente della Giunta regionale, trasformandolo in una figura centrale del governo regionale. Chi, e in che modo, può dunque intralciare l’operato di un governatore, alla luce dei poteri conferitigli dalla Costituzione? In tutta evidenza, questa pretesa di «libertà» appare ambigua. Tornano alla mente le riflessioni di Martin Luther King: «La tua libertà finisce dove comincia quella degli altri». La libertà invocata da Decaro non rischia forse di soffocare quella altrui? Non si stanno comprimendo le libertà e le regole democratiche? Letta con la lente dei diritti, questa posizione appare più come una chiara azione di forza nei confronti dei suoi predecessori.
Osservando certi fatti, viene in mente la lezione di Aldo Moro – «la politica è l’arte del possibile, del graduale, del compromesso intelligente» – ma evidentemente siamo lontanissimi da simili insegnamenti e da una certa etica politica. Tornando a Decaro, è chiaro che coltivi l’ambizione di proporsi come il «giro di boa» dell’area progressista pugliese e, per riuscirci, ha bisogno della sponda grillina che lo scaltro Conte ha già offerto, con lo sguardo rivolto alla Campania e le antenne sintonizzate sul Nazareno. Evidentemente, Decaro ritiene il modello grillino più affidabile e, per certi versi, affine alla sua visione di una politica in presa diretta con i cittadini. Poco importa se in questo modo sacrifica l’eredità innovativa di Nichi Vendola, che con le sue «fabbriche» inaugurò la stagione della partecipazione diffusa, portando in politica migliaia di persone ai margini. Ancor più evidente è l’antitesi con Michele Emiliano e la sua realpolitik, capace di occupare ogni spazio politico e persino di misurarsi con i temi di politica internazionale. Non va sottaciuto, inoltre, che in questi vent’anni la stagione politica dei due ex governatori ha alimentato numerose esperienze amministrative di sindaci che hanno saputo trasformare intere comunità, mutandone destini e connotati sociali.
Antonio Decaro è stato il «sindaco della porta accanto», capace di emozionarsi con i cittadini e di interpretarne le ansie, fino a diventare mister preferenze. Ma la Puglia non è Bari: servono capacità di fare sistema con i territori e spirito di corpo. Intanto, personalismi e diffidenze alimentano un clima di sospetti e paure che irrigidisce gli apparati e ne rallenta l’azione, a danno dell’intera regione.
Il sospetto è che questa tensione sia un congegno a orologeria teso a indebolire i protagonisti pugliesi e a impedir loro di compiere il salto a livello nazionale. La verità è che troppo spesso i candidati governatori si comportano da aspiranti imperatori. Si ha la palpabile sensazione che la politica non abiti più nelle istituzioni, ma nei social, dove si esercita la prova muscolare dei «like». A complicare il quadro c’è la regia onnipresente dei «maker» della comunicazione. Il loro compito non è costruire comunità politiche, ma confezionare leader vincenti che non rispondono più al partito.
Mentre tutto ciò riempie le pagine dei giornali, i veri nodi restano sullo sfondo: l’autonomia differenziata; la vulnerabilità della macchina pubblica alle infiltrazioni criminali; la debolezza del sistema sanitario; l’emorragia di giovani e l’immigrazione incontrollata, che sta trasformando le città prive di un welfare adeguato.
Ecco perché è sconfortante ascoltare soltanto la cronaca di un braccio di ferro interno al centrosinistra, con una destra ormai in catalessi. La Puglia non ha bisogno di nuovi imperatori: ha bisogno di politici proiettati sulla comunità, non su se stessi.