Domenica 07 Settembre 2025 | 21:26

La funzione rieducativa della pena? Ignorata dal decreto «sicurezza»

 
Andrea Apollonio

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Andrea Apollonio

La funzione rieducativa della pena? Ignorata dal decreto «sicurezza»

Il decreto legge che sta per approdare in Parlamento per la sua conversione contiene alcune disposizioni «per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari»

Giovedì 01 Maggio 2025, 13:00

Il decreto legge che sta per approdare in Parlamento per la sua conversione contiene alcune disposizioni «per il rafforzamento della sicurezza degli istituti penitenziari», come recita la rubrica dell’articolo 26 che introduce, nel codice penale, il reato di «Rivolta all’interno di un istituto penitenziario»; con questa nuova figura si punisce con pene molto elevate chi, nelle carceri, adopera violenza o minaccia di gruppo, o forme di resistenza. È una scelta politica carica di conseguenze di «sistema», non adeguatamente vagliate.

Desta anzitutto perplessità l’utilizzo di uno strumento legislativo straordinario (e provvisorio), ad uso e consumo del Governo, che dovrebbe essere legato a casi di necessità e urgenza. Infatti, la previsione di nuovo conio si incentra sul mondo carcerario, come noto afflitto da problemi di sovraffollamento e di inadeguatezza delle strutture, oramai cronicizzati: un quadro - certo non contingente! - lesivo della dignità umana che è alla base di molti degli episodi di violenza che si registrano negli istituti penitenziari, ai quali il legislatore risponde - mantenendo però inalterato lo status quo - col pugno duro: attraverso una previsione di reato ad hoc. Lo svilimento del Parlamento, a fronte di una scelta governativa così incisiva, pare evidente.

Poi: se è vero che il nuovo reato è stato collocato tra i delitti contro l’ordine pubblico, ne andrebbe aggiornata la tradizionale definizione: da intendersi a questo punto non più solo come corretto funzionamento delle istituzioni democratiche, che consente alla collettività di esplicare le proprie libertà e l’esercizio dei propri diritti, ma anche come ferrea disciplina dentro spazi per loro stessa natura «chiusi»; spazi, anzi, istituzionalmente destinati proprio al contenimento di condotte antisociali, che con un inedito ribaltamento di prospettiva possono diventare luogo di turbamento dell’ordine pubblico («esterno»); potendosi immaginare - ma non è facile, di questi tempi, entrare nella testa del legislatore - che siano piuttosto le «notizie» che provengono dai penitenziari in cui scoppiano le «rivolte» - e quindi, più che il fatto in sé, la sua narrazione - a turbare l’ordinato andamento democratico del Paese.

Ma la più grave implicazione non si registra sul piano dell’equilibrio tra i poteri (esecutivo- legislativo) né nell’aggiornamento di categorie penalistiche che sembravano consolidate. È la Costituzione che viene toccata in uno dei suoi principi più sensibili.

Paradossale che una scelta incriminatrice così carica di significato, pienamente aderente al nuovo corso «simbolico» del diritto penale, venga effettuata oggi (momento in cui la sicurezza dei penitenziari, grazie anche a sistemi tecnologici molto evoluti, è garantita al massimo livello) e non sia stata invece presa in esame in tempi in cui l’ordine democratico era effettivamente messo a repentaglio non solo dall’incidenza esterna di fenomeni virulenti quali quelli terroristico e mafioso, ma anche, all’interno dei penitenziari dello Stato, dalle «rivolte» organizzate in special modo dai terroristi, tanto per consentirne la fuga, tanto per destabilizzare il circuito detentivo e creare ulteriori condizioni per la «lotta armata». Se quell’opzione - nel quadro realmente emergenziale degli anni Settanta e Ottanta - non è stata percorsa, non è certo per una minore consapevolezza delle potenzialità repressive dello strumento penale, che anche in quel periodo veniva utilizzato in larga scala; si era piuttosto ben consapevoli che associare la condizione di detenuto a specifiche condotte di reato, da perpetrarsi esclusivamente nelle carceri, volesse dire infrangere quel tabù sociale che - nonostante tutto - le considera luogo di espiazione: in cui si realizza il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.

Oggi è quindi sdoganata per tabulas - e con previsioni di reato di particolare gravità - l’idea che le carceri siano luoghi potenzialmente criminogeni: e per converso ogni accenno di «rivolta»; deve essere non solo sanzionato come già accadeva fino a ieri, e cioè attraverso le «ordinarie» ipotesi di reato e la privazione dei benefici penitenziari (d’altronde, la legge «Gozzini» del 1986, ancora oggi perno dell’ordinamento penitenziario, mira a disincentivare le condotte antisociali in carcere attraverso il meccanismo della «buona condotta», che si traduce in una riduzione del periodo detentivo), ma represso con la minaccia di (ulteriori) sanzioni detentive, da aggiungersi a quelle che il detenuto già sta scontando.

Che le carceri siano luoghi potenzialmente criminogeni, lo si sapeva già. Ma averlo scritto nero su bianco, e mostrare il pugno duro della repressione anziché adoperarsi per un sostanziale miglioramento delle condizioni dei detenuti, infrange l’illusione di un circuito detentivo attento alla dignità delle persone private della loro libertà e alla loro rieducazione, conforme alla Costituzione e alle aspirazioni di una società che, come recita l’art. 3 della Carta, non vuole - o non dovrebbe - lasciare indietro nessuno. I principi, i diritti, sono sempre magnifiche illusioni, è vero; ma il primo passo per avvicinarsi alla loro concreta realizzazione è non disvelarne mai la loro intrinseca irrealizzabilità. È un fragile circuito, che risale alla matrice illuministica della legge e che oggi, almeno rispetto al complesso mondo carcerario e alle sofferenze dei detenuti, anch’essi titolari di diritti, subisce un duro colpo.

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