Domenica 07 Settembre 2025 | 14:46

Quelle divisioni «armate» nelle piazze pacifiste fanno comodo a destra

 
Bepi Martellotta

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Bepi Martellotta

Quelle divisioni «armate» nelle finte piazze fanno comodo a destra

Tutti contro tutti, tutti per la pace ma tutti ben armati di rabbia, odio, disprezzo nei confronti della piazza attigua, mentre gli incauti residenti avrebbero scatenato una guerra contro i manifestanti e pure i vigili pur di superare gli ingorghi

Lunedì 17 Marzo 2025, 14:00

21:07

Tre piazze, l’un contro l’altra «armate». Ha fatto un po’ impressione assistere alle manifestazioni per la pace che sabato hanno letteralmente assediato Roma: da un lato il popolo di sinistra chiamato da Michele Serra, in piazza del Popolo, a sventolare il «Manifesto di Ventotene» con cui fu ideata l’Unione, allo scopo di risvegliare l’Ue chiamata al riarmo; dall’altro il popolo della (ex) sinistra «sovranista e popolare» di Marco Rizzo, che alla Bocca della Verità contestava l’Ue, quel Manifesto di Ventotene e le decisioni unilaterali sul riarmo prese contro il sovranismo degli Stati; dall’altro ancora, in piazza Barberini, la sinistra di «Potere al Popolo», Usb, Arci e - tanto per non far mancare nulla - studenti e palestinesi che bruciavano le bandiere dell’Ue e contestavano, insieme all’Ue, l’attigua piazza di Michele Serra perché favorevole al riarmo.

Tutti contro tutti, tutti per la pace ma tutti ben armati di rabbia, odio, disprezzo nei confronti della piazza attigua, mentre gli incauti residenti avrebbero scatenato una guerra contro i manifestanti e pure i vigili pur di superare gli ingorghi.

Ogni idea riguardo al riarmo, alle guerre, alla pace che non c’è, è di per sé legittima, a maggior ragione se manifestata senza violenza. Ma qualche domanda quelle tre piazze così diverse tra loro - di quello che ancora ci sforziamo di definire «sinistra», giusto per individuare un’area culturale - ce la pongono.

La prima: possibile che quell’area culturale debba essere sempre, ossessivamente, indefinitivamente condannata al «tafazzismo»? Ovvero, possibile che ogni volta che qualcuno lì alzi un dito per dire la sua (a torto o a ragione, Serra lo ha fatto), altri cento debbano accorrere per sparargli contro di tutto mentre inneggiano alla «pace»? Bordate addosso a «Repubblica» dopo gli appelli lanciati per Piazza del Popolo; vignette al vetriolo degli ex colleghi di Serra sugli altri giornali; critiche spietate contro l’invocata «resistenza europea» della sua piazza; bordate di «fuoco amico» dal mondo pentastellato (che tanto per cambiare, si farà una sua piazza il 5 aprile); bombe a grappolo dalla sinistra ultra-pacifista di Santoro contro la sinistra «guerrafondaia» di Serra; resa dei conti a fucilate all’interno del Pd, che a Bruxelles vota a favore del riarmo e a Roma prova a distinguersi approvandolo «solo per la difesa». Insomma, si è visto di tutto tranne che la pace all’interno di quel mondo.

La seconda domanda: qualcuno, lì a sinistra, si è accorto che nel frattempo, a destra, tutti si fregavano le mani all’idea che queste divisioni, plasticamente rappresentate nelle tre piazze, consacreranno le urne per altri 50 anni all’avversario? Perché lì, nell’area di destra che oggi governa, l’hanno capito benissimo invece come manifestare per la pace: basta non svelarle quelle «guerre» intestine che compongono anche l’attuale maggioranza. Alla faccia di «Tafazzi». Il tema, non c’è dubbio, è di per sé divisivo. Non a caso la premier Meloni si è relegata in un religioso, imbarazzato silenzio dinanzi alle intemperanze decisionistiche di Trump e alle altrettanto repentine decisioni dell’alleata Von der Leyen sul riarmo. E perfino il dilagante Salvini, capita l’antifona, si è guardato bene dal «cavalcare» l’onda del sovranismo in chiave anti-governativa, come invece spesso ha fatto da vicepremier. Tutti al balcone, ad ammirare e applaudire gli eserciti della sinistra che se le davano di santa ragione nelle piazze di Roma, nel nome della pace.

La terza domanda: ha ancora senso trincerarsi dietro lo slogan «da noi si discute, ci si confronta» mentre dall’altra parte seguono solo il «capo»? Cioè, può ancora essere un marchio distintivo rispetto ai partiti «dittatoriali» di destra, dalla Forza Italia del fu Berlusconi ai Fratelli d’Italia delle sorelle Meloni, quello di menarsi a piè sospinto su ogni idea, scelta, proposta da portare avanti? Lo slogan («noi discutiamo»), come noto, è assai caro soprattutto al Pd, da quando è nato perennemente alle prese con i suoi mille posizionamenti interni, le sue cento correnti da governare, le sue decine di poltrone da assegnare. E ha funzionato finché il Pd ha tenuto le redini di governo, ora con Monti ora con i giallorossi, prima con Conte e poi con Draghi, perché tanto - alla fine - una soluzione parlamentare a mettere una toppa sugli strappi arrivava sempre. Ma oggi che il vento, dagli Usa all’Europa, soffia dall’altra parte e in Italia non sembra andare diversamente, ha ancora senso quello slogan? E davvero si pensa di smarcarsi dalle guerre (purtroppo, tragiche e vere, in Ucraina come in Palestina) facendo quelle finte nelle piazze, per di più solo per sparare un po’ di «fuoco amico»?

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