La presentazione del libro Craxi. All’ombra della Storia, promossa a Bari dalla Fondazione Giuseppe Tatarella, con l’autrice Stefania Craxi, è stata occasione partecipata. E di riflessione e confronto sulla definizione del suo Presidente, Fabrizio Tatarella, circa la funzione oggi di una «destra moderna». Dove, a mio giudizio, nell’aggettivo «moderna» si ravvisa la demarcazione con la storia delle origini. Quanto ai contenuti della discussione sul libro qui non può che valere una selezione fra i vari argomenti . Per esempio è certamente oggettiva una certa assonanza fra Craxi e la destra, specialmente di Tatarella, sulla idea di Grande Riforma istituzionale, compresa la forma presidenziale della Repubblica. Insieme alla laicizzazione di Craxi nel rapporto con quel mondo. Ma ciò senza che nulla della vita politica di Craxi possa mettere minimamente in ombra la sua figura di esponente di punta del socialismo italiano e della sinistra europea e internazionale. Nel campo alternativo alla destra . Figura, come si legge nel libro , che si inscrive interamente nella Italia repubblicana dal ‘46, che fa l’apprendistato per il Partito socialista a Sesto San Giovanni (la Stalingrado d’Italia ) quando i partiti erano il luogo di selezione della classe dirigente. Che da Milano, come capitale europea, legge la diversificazione della composizione sociale urbana, le forme avanzate di un nuovo terziario. Anche se fu un errore accreditare poi Berlusconi come il campione di un modello che fini per soppiantare i partiti collettivi con la leadership personale del partito azienda.
A distanza da quegli anni comunque oggi si può dire a chiare lettere che la Storia ha dato ragione al socialismo e in esso dare atto del ruolo del socialismo riformista e autonomista. E su un punto cruciale: la necessità del compromesso fra capitale e lavoro , la connotazioni della democrazia come punto di equilibrio fra libertà dell’individuo e del mercato, e tensione verso l’uguaglianza costitutiva dello Stato sociale.
Altro punto, questo invero controverso almeno per me, è l’inadeguatezza di una categoria che nel rapporto col Pci connotava il riformismo liberalsocialista come anticomunista . Inadeguata giacché con Berlinguer il Pci aveva avviato il suo riposizionamento identitario; con la rottura con Mosca e con la scelta atlantica sotto «l’ombrello della Nato». Sono piuttosto propenso a credere che la divisione e il contrasto fra Craxi e Berlinguer derivò dai condizionamenti della Guerra fradda, dalla politica dei blocchi contrapposti . E che per assicurare governabilità Craxi vedesse inevitabile l’accordo di governo con la Dc e la conventio ad escludendum del PCI. Del resto il Caso Moro fu prova di questo. E continuò a dividere Craxi e Berlinguer; perché il primo pensò che l’avvento del neoliberismo di Thatcher e Reagan avrebbe si portato ad enormi arricchimenti della finanza, ma che dal governo si potesse temperare questo processo; e con lo sgocciolamento (trikle down) riversarne parte sui ceti deboli . Mentre Berlinguer temette gli effetti del dominio assoluto del mercato, della sua finanziarizzazione, dello svuotamento dello Stato sociale, e collocò il Pci sulla difensiva .
Quello che invece chiama in causa la responsabilità degli eredi del PCI è il nome dato al nuovo Partito: Pds, dopo caduta del Muro. Craxi si adoperò per favorire l’ingresso del Pds nell’internazionale socialista e lanciò la proposta della «l’Unita socialista» in un partito unico. E se, come dichiara oggi lo stesso Martelli, il tema della leadership del Partito unico - e di quella di Craxi nello specifico - non doveva essere anteposta al processo, piuttosto da parte di Occhetto si poteva connotare il nuovo partito con una sua netta identità socialista, anche nel nome; e immaginare tappe federative verso l’obbiettivo finale di superare Livorno. Ma la storia non si fa con i se. Quello che oggi si deve metter al centro è se il nucleo di quel patrimonio, che si chiama primato della politica, può essere ancora argine al dominio delle grandi concentrazioni finanziarie e tecnologiche globali . La quali con Trump e Musk si fanno direttamente soggetti della politica, fino alla ingerenza nella sovranità nazionale, riducendo in Occidente le singole nazioni al Ruolo di ancelle. (E il Craxi di Sigonella è imparagonabile col rapporto dell’attuale governo italiano con Trump e rende strumentale ogni tentativo di annodare Craxi alla destra). Quel che rischiano i Paesi e i governi europei se rimangono divisi è la irrilevanza nel quadrante mondiale , Italia compresa. La grande questione contemporanea è una nuova fisionomia europea che si fondi sul ruolo degli Stati nazione e sulla cooperazione rafforzata prevista dai trattati . Cooperazione fra quelli che mettono in comune difesa , armonizzazione fiscale , mitigazione dei cambiamenti climatici (prima Valencia e oggi Los Angeles non bastano?). E essere ponte non solo con gli Usa, ma anche con Mediterraneo, Asia e con i Brics che sono uno dei nuovi protagonisti della deglobalizzazione .