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Gpa o utero in affitto? Le parole come strumento per vincere le «guerre»

 
Francesco Intini

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Francesco Intini

Gpa o utero in affitto? Le parole come strumento per vincere le «guerre»

Un esempio eclatante è il dibattito sulla gestazione per altri (GPA), tornato di stretta attualità con l’approvazione della legge che la definisce reato universale

Venerdì 25 Ottobre 2024, 12:02

Nel dibattito pubblico, la scelta delle parole non è mai casuale. Un singolo termine può plasmare l’intera percezione di un tema, influenzando il modo in cui i cittadini lo interpretano e, di conseguenza, orientare le decisioni politiche. Perché le parole non si limitano a descrivere la realtà: la creano.

Un esempio eclatante è il dibattito sulla gestazione per altri (GPA), tornato di stretta attualità con l’approvazione della legge che la definisce reato universale. Trattasi di una pratica in cui una donna porta avanti una gravidanza per conto di una persona o di una coppia che non può avere figli, a cui il bambino viene affidato dopo il parto. Le parole utilizzate per descrivere questa pratica riflettono posizioni ideologiche divergenti, e la terminologia scelta gioca un ruolo cruciale nella formazione del consenso sociale e politico.

Da un lato, chi sostiene la legittimità della GPA tende a utilizzare proprio questa sigla, evocando l’immagine di una procedura legittimata e disciplinata da norme etiche e giuridiche. L’uso di «GPA» mira, infatti, a spostare il dibattito su un piano più razionale e meno emotivo, dipingendo la pratica come una scelta consapevole e rispettosa, resa possibile attraverso un percorso regolato che non implichi sfruttamento o coercizione.

Dall’altro lato, i movimenti contrari alla pratica utilizzano espressioni come «utero in affitto» o «maternità surrogata». Queste metafore evocano immediatamente immagini negative e più cariche emotivamente, suggerendo che il corpo della donna venga sfruttato come un mezzo di produzione. Parlare di «utero in affitto» implica infatti un paragone con il mercato, in cui il corpo femminile diventa oggetto di una transazione economica, spostando quindi l’attenzione dal desiderio di genitorialità alla mercificazione del corpo. L’immagine evocata da «maternità surrogata» è altrettanto efficace: l’aggettivo provoca un senso di distorsione della maternità stessa, in cui l’elemento affettivo - e biologico - viene sostituito da un accordo prestazionale. La metafora è particolarmente potente perché tocca corde emotive e sociali profondamente radicate: la maternità è percepita come un’esperienza intima e personale, e l’idea che possa essere «surrogata» o «delegata» a qualcun altro mette in discussione il significato stesso del diventare madre.

Questa differenza terminologica non è solo una questione linguistica, ma una battaglia concettuale: chi riesce a imporre il proprio frame linguistico nel dibattito pubblico, riesce anche a determinare il modo in cui la questione verrà percepita dalla società. L’espressione «utero in affitto» porta automaticamente l’opinione pubblica a inquadrare la pratica come un atto immorale, «maternità surrogata» la relega su un piano diverso rispetto alla maternità «autentica», mentre «GPA» offre un’immagine più asettica e depoliticizzata della pratica, rendendo il dibattito meno carico di giudizi morali.

Lo stesso meccanismo si verifica anche in altri contesti: il fenomeno migratorio, ad esempio, viene spesso descritto con termini prelevati dal lessico bellico, come «invasioni», «ondate» e persino «assalti». Questo tipo di linguaggio non è casuale: la scelta di parole legate alla guerra o alla violazione dei confini costruisce una narrazione in cui i migranti non sono persone, ma pericoli, giustificando così politiche maggiormente repressive. Allo stesso modo, anche i termini con cui si definiscono i migranti hanno un peso rilevante: definire una persona come «clandestina» significa automaticamente posizionarla al di fuori della legge, rendendo più facile giustificare misure punitive. Chiamarla «migrante», invece, sposta l’attenzione sulla condizione umana - e universale - di chi si sposta da un paese all’altro, e sulla sua condizione di essere umano in cerca di un proprio posto nel mondo.

Un altro classico esempio, tutto italiano, è lo «scudo fiscale» introdotto dal governo Berlusconi nel 2001. Il termine «scudo», scelto con cura, evoca protezione e sicurezza, nascondendo dietro un’immagine rassicurante quella che era, di fatto, una forma di condono per capitali illegalmente esportati. Definirlo «scudo», come fosse una difesa da un’aggressione esterna, e non un condono, ha contribuito a neutralizzare parte delle critiche che sarebbero potute scaturire da una definizione più esplicita.

Le metafore e i termini utilizzati non solo influenzano il modo in cui i cittadini percepiscono un tema, ma anche le soluzioni che sono disposti a considerare accettabili. George Lakoff, celebre linguista statunitense, lo ha spiegato chiaramente: il linguaggio politico è una battaglia per il controllo del pensiero collettivo. Chi controlla le metafore, spesso controlla il dibattito.

Tutto questo non riguarda solo la scelta di singole parole, ma coinvolge il dibattito pubblico nella sua dimensione più profonda: la metafora secondo cui «ogni discussione è una guerra», teorizzata dallo stesso Lakoff, è ormai una colonna portante del linguaggio politico. In ogni dibattito, la retorica dominante è quella del conflitto: si parla di «distruggere» l’argomento dell’avversario, di «colpire» i punti deboli, di «difendere» la propria posizione. La discussione diventa così uno scontro, un duello, in cui l’obiettivo è schiacciare l’altro, piuttosto che trovare un compromesso o una sintesi: chi si oppone diventa automaticamente un «nemico» - con la conseguenza di iperpolarizzare il dibattito pubblico - e l’idea di compromesso o dialogo viene relegata a una posizione di debolezza.

Assecondando questo registro, la chiosa viene facile: ogni parola è un’arma, e ogni metafora un campo di battaglia. E dietro ogni scelta linguistica, si nasconde una visione del mondo. Chi riesce a imporre il proprio linguaggio, spesso, ha già vinto metà della guerra.

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