Domenica 07 Settembre 2025 | 21:20

«Chi pensa a noi?»: l’angoscia vive nelle carceri

 
Alessandra Peluso

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Alessandra Peluso

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Non si risolve la questione in un battito d’ali, sebbene le soluzioni siano accessibili a tutti: aumentare il personale di sostegno e cura, di ascolto per trasmettere parole di gentilezza, portare cultura, accrescere il numero della polizia penitenziaria, triplicare il personale di settore

Mercoledì 03 Luglio 2024, 14:00

«Chi pensa a noi?», ha esclamato un detenuto durante un incontro avuto con alcuni allievi del «Liceo Capece» di Maglie, nel leccese, in virtù di un progetto condotto da tempo da Ada Fiore (docente del Liceo). Ascolto la notizia al tg dello scorso 16 giugno: quattro suicidi in sole 24 ore. Quattro. E nell’udire questo, d’improvviso ha fatto eco la domanda di quel signore. Già. Chi pensa a voi?

Non si risolve la questione in un battito d’ali, sebbene le soluzioni siano accessibili a tutti: aumentare il personale di sostegno e cura, di ascolto per trasmettere parole di gentilezza, portare cultura, accrescere il numero della polizia penitenziaria, triplicare il personale di settore. Poi, avrebbero bisogno di indumenti, di garantire dignità alla loro persona. «Nessuno pensa a noi, non siamo considerati da nessuno». Mi sono permessa di dire che questo non corrisponde sempre al vero visto che ci sono persone perbene che li aiutano (seppur poche), che Papa Francesco, i giornalisti comunque parlano e descrivono le condizioni inaccettabili delle carceri italiane. Ma, è evidente che la situazione resta drammatica. Se ne parla, poco o male, e le condizioni esistenziali dei detenuti e del personale penitenziario risultano inaccettabili. La dignità è assente. La parola «uomo» sembra si riduca a qualcosa che poco abbia a fare con l’essere umano. La vista di questo edificio immenso, «borgo s. Nicola» di Lecce e di sagome che da lontano sembravano accalcate alle sbarre provoca angoscia, smarrimento. Così come le loro narrazioni. Ora, non si chiedono sconti di pena, né uomini ragionevoli lo chiederebbero se e solo se esistono secondo la giurisprudenza delle colpe effettive da espiare: ridurre il tempo indefinito dei processi? Questo è realizzabile. Aumentare il personale nei tribunali? Si può. Rendere i luoghi di detenzione più accettabili? Sì, è possibile. La dignità della persona va garantita anche a coloro che non appartengono ad alcun partito politico, che nessuno li può salvare perché non hanno bandiere, e non hanno alcuna immunità, ma sono comunque persone: uomini, donne, minori che devono poter avere in sé l’idea di un riscatto, di una possibilità di vita futura. Diversa. La società italiana, la Repubblica italiana glielo devono. La dignità è un diritto sancito il 10 dicembre del 1948 dalla «Dichiarazione universale dei diritti umani». D’altro canto, se non si afferma questo si incentivano violenza, aggressività, delinquenza, criminalità. È indispensabile accanto al diritto, alla giustizia, far corrispondere l’etica. Non ci può essere giustizia senza etica. Né la politica ha senso depauperata di etica.

I signori detenuti, con i quali gli allievi e le allieve hanno colloquiato, hanno consigliato loro di credere sempre in qualcosa, in qualcuno, di sognare e occuparsi di qualcosa nella vita. Di non oziare e di non pensare ai «soldi facili», ma di darsi da fare. Con la loro testimonianza i nostri ragazzi ne sono usciti arricchiti. Un’esperienza forte, importante e necessaria anche per infondere loro un barlume di legame con il territorio, riallacciarsi al significato autentico della vita. Riportare la parola. Il sorriso. Non è poco. Per loro. Per di più, è emersa in modo preponderante l’esigenza di lavorare. Non si può occupare il tempo con il solo proprio spazio fisico. È necessario lavorare, studiare, rendersi utili. E allora perché non creare degli orti all’interno del penitenziario, dei frutteti, o dei laboratori dell’artigianato, falegnameria, ecc. Un posto di detenzione che insegni ad amare, a conoscere la bellezza, a rispettarsi e a rispettare. È un progetto complesso, ambizioso, ma possibile, tanto quanto si armano gli Stati per le guerre così si dovrebbe riuscire a far comprendere il valore della vita. Ci vogliono tempo, attenzione. Non è facile: educare alla cura e alla responsabilità. E non soltanto i detenuti. E magari a termine della pena saranno delle persone libere con un lavoro per integrarsi nella società. Avranno inoltre, l’opportunità di guardare l’alba o il tramonto del sole, l’immensità del cielo, il mare. Per chi è fuori da quelle sbarre lo considera ovvio, anzi non se ne cura nemmeno, perché gli occhi spesso guardano verso il basso diretti sul display del proprio smartphone; mentre, qualcuno di loro attende ancora di vedere quell’angolo di cielo, la magnificenza del mare, il sole, che sono lì ad aspettarli. Sempre.

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