Funziona come con il grido: «A lupo, a lupo!». La stessa storia. Troppe volte è stato apoditticamente affermato: «Queste elezioni sono d’importanza epocale». Quando poi arriva il giorno in cui lo sono per davvero, l’elettorato si è assuefatto. Non va a votare e, proprio allora, l’astensione scala il suo picco più alto.
È il rischio che si corre con le imminenti votazioni. L’Europa si trova di fronte a una svolta necessaria. Lo leggiamo e lo avvertiamo nei fatti di ogni giorno. Anche quando il concetto non viene esplicitato. Perché il mondo sta cambiando. Sta diventando sempre più complesso e pericoloso. Il modello europeo, che ha fin qui edulcorato e sminuzzato il concetto di potenza, affidandosi a un’architettura istituzionale a dir poco barocca, è rimasto spiazzato. Non regge più. Appare inadeguato rispetto alle nuove sfide. Richiede - e presto - una profonda revisione.
L’Europa deve riaffermare un primato economico non più scontato e darsi una forza politica che fin qui non ha posseduto. Negli ultimi cinque anni pandemie e guerre lo hanno spiegato anche ai più riottosi. Oggi, neppure l’anti-europeista più incallito crede più che i problemi del nuovo mondo possano trovare soluzione nei confini ristretti dello Stato-nazione. Il “sovranismo” continua a prosperare e a far proseliti, ma come mito e grido di protesta. Non come soluzione praticabile.
Chi gestirà questa gigantesca opera di trasformazione? I numeri, che in democrazia contano, diranno se la maggioranza uscente potrà riproporsi. Essa - composta da popolari, socialisti e liberali - cinque anni fa ebbe bisogno del soccorso di qualche voto spurio per eleggere il suo Presidente. Potrebbe uscire confermata dalle urne. Potrebbe essere scalzata da una diversa maggioranza più orientata a destra. Ovvero, così come la volta precedente, potrebbe aver bisogno di un “aiutino”. Il nome del Presidente della Commissione, come le intendenze di un tempo, seguirà. Tutto è legato a un pugno di seggi. Nulla è già giocato. Sicché, è sin troppo facile pronosticare che il 10 giugno, una volta effettuati i conteggi, in Europa si aprirà una fase di trattative dagli esiti non scontati.
Questo quadro così difficile, persino drammatico, contrasta violentemente con la percezione che se ne ha in Italia. La scelta effettuata da quasi tutti i maggiori leader, di candidarsi pur sapendo che, se eletti, rinunceranno al seggio, ha tolto tensione e serietà alla competizione. L’ha trasformata in una sorta di sondaggio domestico. Tra breve sapremo se “l’effetto bipolarizzante”, ricercato da Meloni e Schlein, avrà funzionato. Capiremo se la coalizione di governo confermerà i risultati delle legislative e quali delle forze minori saranno riuscite a superare la fatidica soglia del 4%. Scopriremo anche se qualche leader – Conte, Salvini e Calenda i maggiori indiziati – uscirà talmente ammaccato da consigliare, alla propria forza politica, qualche ripensamento più profondo. Dell’Europa ce ne dimenticheremo. Ovvero, nel migliore dei casi, la tratteremo a margine.
Tutto lascia pensare che questa volta, tra i partiti in lizza, non ci sarà “il cannibale”: quello in grado di raccogliere più di un terzo dei suffragi. E’ un classico delle elezioni europee. Nel 2009 fu il PdL a superare il 35%; nel 2014 il Pd di Renzi sfiorò addirittura il 40% e nell’ultima tornata Matteo Salvini, da solo, si issò fino al 34,2% . La parte del leone, invece, potrebbe farla proprio l’astensione. L’Italia, nel caso, non ne uscirebbe certo rafforzata. Qualcuno, allora, si straccerà le vesti. Cercando disperatamente la pagliuzza nell’occhio dell’avversario, alla quale aggrapparsi.