Sabato 06 Settembre 2025 | 15:58

L’autonomia? Piace a tanti: ormai il sovranismo è diventato condominiale

 
Leonardo Petrocelli

Reporter:

Leonardo Petrocelli

L’autonomia? Piace a tanti: ormai il sovranismo è diventato condominiale

Tra chi l’ha proposta, chi l’ha accettata, chi l’ha ingoiata e chi ha finto di non vederla, ci sono dentro in molti, anche alcuni governatori del Sud che, almeno inizialmente, avevano accettato la «sfida» e pure con un certo entusiasmo

Mercoledì 17 Gennaio 2024, 13:47

È tornata l’Autonomia differenziata. O, meglio, non se ne era mai andata: è rimasta sospesa per anni, ad aleggiare minacciosa sull’Italia come quello spettro che si aggirava per l’Europa in un famoso Manifesto. A sentire le campane che suonano nel Paese non la vuole nessuno, a parte la Lega, eppure è sempre lì ed oggi si presenta nella forma tangibile del Disegno di legge Calderoli, approdato in Aula tra le proteste delle piazze meridiane (e non solo).

C’è poco di nobile e tanto di «mercantile» nelle fortune di questa sciagurata riforma. Matteo Salvini - tra un ponte sullo Stretto e una convention con i nazionalisti di tutta Europa - ha bisogno di far passare il provvedimento per calmare almeno un po’ lo scontento di Luca Zaia e delle frange nordiste del partito («dì qualcosa di leghista...»). Giorgia Meloni - che pure viene da una destra di tutt’altra storia - è chiamata a non sfasciare la coalizione e soprattutto a incassare il consenso pieno degli alleati sull’altra riforma in arrivo, il premierato. E dunque «dammi questo che ti do quello», mentre Forza Italia galleggia senza troppe fortune da una parte all’altra predicando moderazione. E il Partito democratico? È un po’ come il neoministro dell’Istruzione francese, Amélie Oudéa-Castéra, una che per giorni ha triturato i neuroni transalpini sull’alto valore della scuola della Repubblica, cioè quella pubblica, mentre iscriveva i propri figli in un prestigioso istituto privato. Ecco, l’Autonomia nasce con i preaccordi al tempo del governo Gentiloni (2018) e soprattutto annovera tante regioni «rosse», anzi «rosé», fra le pretendenti alle magnifiche sorti e progressive del federalismo rafforzato. Come più volte ha argomentato e documentato l’economista Gianfranco Viesti, l’autonomia chiesta dall’Emilia Romagna di Stefano Bonaccini (e, al tempo, della vicepresidente Elly Schlein) non è più soft o meno pericolosa di quella pretesa da Lombardia e Veneto. Senza dimenticare che l’inizio dello sfascio è quella Riforma del Titolo V della Costituzione (2001) anch’essa targata centrosinistra e anch’essa concepita al tempo per calmare i bollori della Lega che quando si tratta di far passare il federalismo, complice la forza del Nord, sembra il Colosso di Rodi (mentre, purtroppo per loro e per tutti, torna il nano Brontolo quando si tratta di cancellare la legge Fornero).

Insomma, per dritto o per rovescio, in queste cinquanta sfumature di autonomia, tra chi l’ha proposta, chi l’ha accettata, chi l’ha ingoiata e chi ha finto di non vederla, ci sono dentro in molti, anche alcuni governatori del Sud che, almeno inizialmente, avevano accettato la «sfida» e pure con un certo entusiasmo.

L’impressione è che quel «padroni a casa nostra», declinato in salsa regionale, non dispiaccia poi tanto soprattutto a chi ha le spalle abbastanza larghe da poterselo permettere. In fondo, è l’ultima forma di sovranismo rimasta, la peggiore, dopo gli spettacoli deprimenti degli ultimi anni. In tanti sono partiti sventolando opuscoli contro l’euro, minacciando referendum per uscire dall’Unione europea, indossando magliette pro-Putin, sognando vie della seta e maledicendo il padronato americano. Sono come quelli nati rivoluzionari e morti notai, per dirla con le parole che Eugène Ionesco rivolse alla gioventù borghese che fabbricava il Sessantotto menandosela da guerriglieri cubani. Rappresentazione plastica di questa involuzione è proprio il governo di Giorgia Meloni che, come i Salvini e i Di Maio tempo prima, aveva costruito le proprie fortune non certo plaudendo alle amministrazioni democratiche americane o cercando empatia con i tecnocrati di Bruxelles ma predicando esattamente l’opposto. Al momento del dunque s’è squagliata al pari di tutti i suoi predecessori a ulteriore dimostrazione che il sovranismo è, in fondo, solo un taxi che serve per passare dallo zero virgola al 30% dei consensi. Poi, a operazione conclusa, la vettura va rottamata e l’autista liquidato senza troppe smancerie.

La ragione è una e nemmeno misteriosa: se Giorgia avesse dato seguito alle sue patriottiche promesse elettorali il primo governo di destra-destra della Repubblica sarebbe durato un giorno. Un giorno da leoni, certo, ma pur sempre un giorno. Dunque, meglio i cent’anni da pecora in un capovolgimento degli antichi motti che vale più di mille dichiarazioni di antifascismo. Eppure, poiché le idee non se le porta via il vento, quella tensione sovranista è rimasta lì, sulle teste di tutti proprio come l’autonomia all’inizio del nostro ragionamento. C’è voglia di «mani libere». E se l’Italia non è nelle condizioni di liberarsi dai vincoli europei e americani, forse lo sono le Regioni, almeno quelle ricche del Nord, di liberarsi dai vincoli nazionali, soprattutto se solidaristici. Il sovranismo si è involuto da terremoto continentale di popolo a questione piccina, territoriale, quasi condominiale. E per soli benestanti. Con tanti saluti al Sud.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)