L’allarme dei residenti di Piazza Umberto, a Bari, evoca le analisi dell’urbanista americano Mike Davis, che da decenni avverte dei pericoli in serbo per la civiltà occidentale. Questa scaturisce e si basa essenzialmente sui grandi agglomerati, contrapposta alle aree selvagge di altri tempi e altre latitudini. Negli Stati Uniti si parla di instant slum quando un quartiere viene rapidamente invaso da emarginati, nuclei familiari a basso reddito, gruppi criminali. In mesi o settimane la qualità della zona sparisce.
Nel caso di Bari, il centro nevralgico anche della vita accademica scivola verso lo status di roccaforti del rischio, con i propri toponimi: San Paolo, Libertà, la Madonnella, Enziteto, ecc. Ovvero repliche su una scala di prossimità dei ghetti americani e parigini, rappresentativi di un panorama distopico che non attende il futuro per realizzarsi.
Si prenda Los Angeles, fra Inglewood e Culver City, incenerite dalle fiamme dei riots, i moti improvvisi che si scatenano per reazioni ad arresti e odio razziale. Sembra 1997 Fuga da New York. È già maturo il tempo per affidare la legge e l’ordine a un essere cibernetico come Robocop? Dal fuoco e dalle fiamme emerge Terminator? Viene in mente il racconto Requiem per un cacciatore, di Henry Kuttner e Catherine L. Moore, in cui fin dagli anni ‘50 si preconizzava una New York così violenta da far annidare nel Central Park dei cacciatori di teste. Scriveva Baudelaire: «L’America, una grande barbarie illuminata a gas». Nel 1981, l’allora Giudice Supremo Warren Burger dichiarava: «Siamo forse ostaggi dentro i confini del nostro stesso Paese?»
I rioni nei quali la normale convivenza precipita e viene meno l’habeas corpus si popolano di un’umanità ferina, aggregata in gang. Il controllo dello spaccio è decisivo per l’appropriazione del territorio. Quando i contenziosi non si possono risolvere con esecuzioni singole si può ricorrere ai drive by shootings, le sparatorie dalle auto in corsa. Dall’instant slum all’instant war zone.
Tutto peggiora ai limiti estremi delle città. Dichiarò l’architetto Renzo Piano in un’intervista: «Quando le periferie diventano luogo di degrado, c’è qualcosa di sbagliato nell’idea che le ha fatte nascere. È sbagliato volerne fare dei semplici dormitori o dei ghetti di lusso, bisogna ripensare alle periferie come e veri e propri spazi multifunzionali: piazze e giardini che siano luoghi di incontro. E se le fabbriche chiudono, trasformiamo le periferie in fabbriche di idee, in luogo di cultura».
La Parigi delle banlieues fece temere il contagio delle notti in fiamme all’estero. Preoccupazione tardiva. Quelle periferie disperate sono narrate in parecchia della nuova letteratura francese. I disordini del 2005 cominciarono a Clichy-sous-Bois il 27 ottobre di quell’anno e presto dilagarono a Montfermeil e le limitrofe comunità del dipartimento di Seine-Saint-Denis. Poi la rabbia di strada raggiunse anche Rennes, Évreux, Rouen, Lilla, Valenciennes, Amiens, Dijon, Tolosa, Pau, Marsiglia e Nizza. Tanto che l’8 novembre l’Eliseo fu costretto a varare lo stato di emergenza, che durò 3 mesi.
Ma non si trattava di emergenza civile. La sollevazione era il concentrato del teppismo diffuso e mai stroncato di quartieri dove la mescolanza etnica forzosa di un’ex potenza coloniale come la Francia, l’ultima del pianeta, non ha mai favorito l’integrazione e la tolleranza. Semmai, nutre rancori e risentimenti reciproci, come racconta Jean-Christope Grangé in L’impero dei lupi, ambientato fra gli immigrati turchi nella cinta parigina.
Quasi sempre la finzione narrativa assurge a profezia. Doris Lessing pubblica nel 1974 il romanzo Memorie di una sopravvissuta, la cui trama si snoda in una serie convergente di episodi che delineano un’elegia dell’apocalisse urbana. La protagonista narra in prima persona la caduta a picco dell’ordine pubblico e dei servizi. Le uniche sue scelte sono il fatalismo e la rassegnazione: «Le cose non andavano tanto bene, anzi alcune andavano davvero male».