L’avvicinarsi del 2024 sollecita alcune riflessioni sugli scenari economici che gli italiani avranno di fronte. In primo luogo, il contesto generale di deglobalizzazione – ovvero di ricerca, da parte delle imprese, di Paesi «amici» nei quali delocalizzare – e i conflitti in Ucraina e Palestina accrescono le incertezze e pongono ulteriori freni alla dinamica degli investimenti, con l’eccezione del comparto delle imprese collocate nel settore della Difesa militare. Occorre osservare che la deglobalizzazione non è un fenomeno degli ultimi anni. La crescita degli scambi internazionali comincia a frenare in modo significativo dopo la crisi globale del 2008. Prima di quell’anno, gli scambi internazionali crescevano mediamente del 7.6% all’anno, per ridursi di anno in anno, fino al 2.7% del 2022.
Già, infatti, con l’amministrazione Obama vengono introdotte misure protezionistiche negli USA, soprattutto per far fronte al crescente disavanzo commerciale con la Cina (gli Stati Uniti hanno fatto sempre registrare deficit della bilancia commerciale dal 1975). Questo processo si accentua con Trump e ora con Biden e non vi sono segnali di inversione di tendenza.
In secondo luogo, occorre considerare che l’economia italiana sarà senza dubbio influenzata dalla recessione tedesca. Ciò a ragione del fatto che soprattutto le regioni del Nord sono sincronizzate con il ciclo economico tedesco, mediante rapporti di subfornitura. Il rallentamento della crescita tedesca significa, in quelle aree, minori ordinativi e, per conseguenza, minori profitti e minori investimenti.
Una recente ricerca del Centro studi Tagliacarne rileva che il 36% delle imprese esportatrici italiane lavora con rapporti di subfornitura e che una frazione consistente del nostro Made in Italy (circa il 20%) confluisce nei processi di trasformazione di altri Paesi.
Come è noto, la revisione del Patto di stabilità e crescita si sta determinando in queste ore a Bruxelles, in una trattativa lunga e difficile che sancisce, ancora una volta, un’Europa delle diffidenze fra Stati membri: Germania e Paesi del Nord favorevoli a limiti rigidi di riduzione di deficit e debito pubblico e Francia, Italia e Paesi mediterranei per condizioni meno stringenti. Questo snodo è fondamentale per la direzione che le politiche fiscali potranno intraprendere nei prossimi anni: una vittoria dei primi condannerebbe l’Italia (Paese con elevato debito pubblico) a misure di rientro draconiane, con conseguente ulteriore riduzione della spesa. In entrambi i casi, non esisterà più la possibilità di ottenere prestiti ed erogazioni a fondo perduto come nel caso del Next Generation Europe. Vi è però da considerare che le nuove regole prevedono minori riduzioni di spesa laddove il Paese membro la impegni per la transizione ambientale o per la Difesa. In tal senso, vi sono margini di flessibilità sull’uso dello spazio fiscale non presenti nel Trattato di Maastricht.
La BCE ha annunciato che, pure a fronte della riduzione del tasso di inflazione (ora al 3.4%, in forte riduzione dal 2022, a fronte di un target della Banca centrale del 2%), non ridurrà i tassi di interesse e non è una buona notizia per l’economia italiana, dal momento che ovviamente questa decisione impatta negativamente su investimenti privati, mutui a tasso variabile e costo del debito pubblico.
In sostanza, con la sola eccezione del PNRR, le principali variabili macroeconomiche e di politica economica a ridosso del 2024 spingono per considerare il prossimo anno caratterizzato da contrazione di investimenti e spesa pubblica. Questa considerazione è importante alla luce del fatto che l’economia italiana ha molto bisogno del sostegno dell’operatore pubblico, sia per garantirsi una spesa sociale tale da non distruggere quel poco che resta del nostro Welfare, anche per banali ragioni di consenso elettorale e di «legittimazione» delle istituzioni politiche (si pensi ai fondi per la sanità pubblica, ridottisi, in rapporto al Pil, nell’ultima Legge di Stabilità), sia per garantire sufficienti mercati di sbocco per le nostre imprese che vendono su mercati interni. Il PNRR è a rischio, per il sottodimensionamento della pubblica amministrazione e la conseguente difficoltà degli Enti locali di partecipare ai bandi.
La previsione di crescita che il Governo ha inserito nella Legge di stabilità è dell’1.2%, ma la Commissione europea e l’Istat la hanno rivista allo 0.7%: si tratta di una dinamica modesta, che metterà il Governo nella difficile condizione di dover ulteriormente rinviare la realizzazione delle proprie promesse elettorali, a partire dal costoso superamento della Legge Fornero.