Le principali mosse dell’esecutivo sul piano della politica economica mettono in evidenza un clamoroso cambio di vedute rispetto alla campagna elettorale e, dunque, un chiaro tradimento degli elettori. Nei giorni scorsi, i provvedimenti più rilevanti a riguardo sono stati la decisione di privatizzazione di Ita e il passaggio dal mercato tutelato dell’energia a quello libero.
Riguardo al primo caso, si tratta dell’avvio della vendita del pacchetto di minoranza di Ita a Lufthansa per 325 milioni di euro e dell’apertura al fondo Kkr per l’acquisto della rete di Tim. Si ricorderà che Giorgia Meloni, solo lo scorso anno, annunciava un programma di ritorno alla proprietà nazionale di imprese strategiche, con la motivazione che la nazionalità italiana avrebbe favorito investimenti in patria. A settembre 2022, nel criticare la scelta della privatizzazione di Ita da parte del Governo Draghi, Giorgia Meloni diceva: «Secondo me bisognava valutare la possibilità di mantenere la nostra compagnia di bandiera perché non ci facciamo certo un figurone ad essere, forse, l’unico grande Paese occidentale d’Europa che non ha una propria compagnia di bandiera». Il Governo abbandona oggi qualunque sussulto patriottico.
Peraltro, vi è ormai ampia letteratura che mostra come le privatizzazioni siano state, in Italia, superiori - per importi movimentati - a quelle praticate in Europa e sostanzialmente inefficaci nel lungo periodo. In particolare, una recente ricerca di Pietro Modiano e Marco Onado (Illusioni perdute. Banche, imprese, classe dirigente in Italia dopo le privatizzazioni, Il Mulino 2023) mostra in dettaglio come le privatizzazioni attuate in Italia - soprattutto a partire dagli anni Novanta - siano state realizzate per far cassa, in un orizzonte miope di breve periodo, con effetti molto dubbi sulla qualità del servizio. Anzi, in alcuni casi - IRI in primis - si è persa sovranità tecnologica, dunque capacità del Paese di generare innovazioni al suo interno. Ciò nonostante, come spesso accade, è innanzitutto la Commissione europea a sollecitare privatizzazioni e il Governo a seguirne le raccomandazioni più o meno esplicite.
Per quanto attiene al caso dell’energia, è altrettanto nota la posizione del Governo di provare a limitare i danni alle famiglie derivanti dall’aumento del prezzo di elettricità e gas, attraverso tariffe contenute nel mercato tutelato. La recente repentina decisione di abolire questo dispositivo e di lasciare la formazione delle tariffe al solo mercato viene motivata dalla considerazione che si tratta di un’eredità dei governi precedenti, che hanno condizionato la negoziazione del PNRR a questa scelta. Va, però rilevato, che l’esecutivo ha avuto molti mesi a disposizione per concordare modifiche di questa norma, soprattutto a ragione del fatto che ha concordato modifiche dello stesso PNRR.
Il punto politico in discussione riguarda il nesso fra politiche economiche negoziate in sede europea e consenso interno. Con ogni evidenza, il caso Meloni è quello di una rapida conversione da una destra con connotazioni «sociali» in politica economica a una destra liberista, molto in linea con le scelte del Governo Draghi, rispetto al quale era all’opposizione. Dalla sua creazione e con forte accelerazione a seguito della crisi dei debiti sovrani del 2010, l’Unione europea si è basata su una impostazione definita neo-mercantilista, in base alla quale la crescita economica viene demandata all’aumento delle esportazioni nette, a sua volta reso possibile da politiche fiscali restrittive (per ridurre le importazioni) e moderazione salariale (per tenere alta la competitività di prezzo). Questa impostazione è stata temporaneamente abbandonata negli anni della crisi sanitaria e viene oggi riproposta in vista della riproposizione del Patto di stabilità e crescita.
La destra italiana ha vinto le elezioni con un programma fondamentalmente basato su connotazioni di destra sociale: attenzione alle fasce più povere della popolazione, con intervento pubblico incisivo soprattutto per il welfare, che è in radicale contraddizione con il modello di sviluppo che la Commissione fa valere. Meloni ha da subito appiattito la propria posizione a quella prevalente in Europa e, in più e cosa non da poco, ha ritenuto di dover legittimare la propria anomalia (la prima volta di un governo a trazione postfascista in Italia, solo pochi anni fa favorevole all’abbandono dell’euro) garantendo ai partner di far bene i «compiti a casa»: da qui, dosi di liberismo (in termini, per esempio, di maggiori contrazioni della spesa pubblica) addirittura superiori a quelli richiesti dalla commissione stessa.