Se una generazione copre all’incirca un arco di 25 anni, possiamo dire che sono almeno tre quelle di cittadini europei che hanno avuto il privilegio di non conoscere l’orrore della guerra, almeno quella mondiale concepita e fatta deflagrare proprio dal vecchio continente. Questo, purtroppo, non ha voluto dire che guerre in giro per il mondo non ce ne fossero- basti ricordare i sanguinosi conflitti nel decennio ‘91-2001 nella ex Jugoslavia, per tacere dei focolai sparsi per il mondo, derubricati a “conflitti locali”, e non per questo meno letali- ma solo che c’era tra noi e loro una distanza, se non fisica almeno concettuale. C’era un altrove, africano o asiatico come la quarantina di guerre ancora in corso, che sembrava non toccarci perché i media non ce lo portavano in casa: era tutto lontano, senza video ne’ audio. Con il conflitto russo-ucraino è cambiato tutto: per la prima volta abbiamo vissuto l’atroce esperienza di una sorta di voyeurismo della guerra vista con l’occhio dello smartphone, attraverso le dirette quotidiane dai fronti e le interviste del dolore. La stessa strategia reattiva di Zelensky ha poggiato interamente sul coinvolgimento emozionale dell’occidente per una guerra raccontata con le immagini e commentata direttamente dal leader ucraino, presente in tutte le occasioni possibili offerte dalle risorse comunicazionali, dalle assemblee parlamentari al festival della canzone. E ora il sangue nel vicino Medio-Oriente, un attacco terroristico che ha come vittima, oltre a donne e bambini innocenti massacrati nei kibbutz israeliani, anche la causa palestinese, perché mette dalla parte del torto anche un popolo incolpevole e sofferente. Ecco: è come se le tre generazioni di europei nate nella cultura della pace, nutrite con il sacro testo della dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948, cresciute condividendo valori costituzionali in cui la persona umana rappresenta il fine dell’azione dei pubblici poteri, oggi fossero scaraventate in una brutta storia in cui non si capisce bene l’origine e la fine. La guerra è in sé un evento regressivo, primitivo, che nega la vita: non è parte del nostra realtà e non siamo in grado di comprenderla. Per quasi ottant’anni abbiamo visto sublimare la violenza metropolitana solo attraverso la ritualizzazione delle tribù dei tifosi nei conflitti settimanali davanti ad un pallone, il massimo grado tollerato dalla civiltà. La tanta violenza non sterilizzata, che pure pervade le nostre comunità, è combattuta ed espunta dalle istituzioni, attraverso l’azione di pubblica sicurezza: cresce, non c’è dubbio, ma è isolata e punita dalle società europee. La guerra è un evento collettivo, nessuno si salva e la violenza non è mai parziale, ma totalizzante. Non commentiamo i torti e le ragioni, che pure sono evidenti quando ci sono aggressori ed aggrediti: è la guerra ad annullare ogni dignità umana, ogni razionalità.
Qual è la novità di queste guerre vicine all’Europa? Le stiamo vivendo in diretta, assecondando, con quel tanto di voyeurismo che le tecnologie della comunicazione recano con sé, gli intenti di chi manovra la paura somministrata anche ai non belligeranti, come strumento bellico. E, paradosso che fa riflettere, un orrore scaccia via l’altro nell’hit parade della violenza: la guerra nella striscia di Gaza ha scacciato via la guerra russo-ucraina, sottraendo agli aggrediti la risorsa principale rappresentata dalla comunicazione.
L’Europa in pace da tre generazioni se fosse salda ed esistesse veramente come entità politica, potrebbe svolgere un ruolo di pace in queste partite drammatiche. Ma questa è un’altra storia.