«Tu non sei madre, non puoi capire». Quante volte me lo sono sentito dire. Non mi sono presa collera, certa come sono della potenza della natura, che ci abilita a una maternità interiore e di istinto sin dal primo vagito. Una maternità che sfugge alle strutture, alla fisicità, a noi stesse.
Ed esce fuori quando meno te la spetti, oltre la pancia, dall’anima.
Come ieri sera. Davanti ad un padre – a tutti gli effetti – che con rabbia, dolore, disperazione, e forza fisica ha provato a strappare il figlio al male. E a un futuro, dei peggiori, forse già segnato.
Avrà avuto una cinquantina d’anni, qualcuno in più di me, quel padre. Piccoletto ma forte d’amore più che di muscoli. Venti-venticinque il figlio, possente, alto quasi il doppio. Lo sguardo di fuoco di chi si sta perdendo.
Esterno notte, un a strada nel centro di una località balneare della provincia di Lecce. Il profumo del mare, qualche amore settembrino sulla spiaggia. Idillio e poesia. Poi l’arrivo di un’auto con una famigliola a bordo, padre alla guida, madre accanto e figlia dietro.
È sceso lui, cercava il figlio e se l’è trovato di fronte, che arrivava dal mare con altri amici.
«Mio figlio spacciatore no, tu spacciatore no!», gli ha detto. Pareva un film. Il film di una famiglia perbene collassata sotto un cumulo d’erba, o di polvere bianca chissà. Le donne in auto, spaventate.
In strada il corpo a corpo, reale, forte tra due uomini l’uno il sangue dell’altro. Le botte, i pugni tra una strada dritta e una sguescia che evidentemente non sono più parallele.
C’era disperazione negli occhi di quel papà, e c’era paura. Paura di perdere tutto, di perdere la parte più importante di sé che in una notte di fine estate gli puntava un piede sul petto ingaggiando il suo corpo a corpo dall’inferno.
Se le sono date di santa ragione e no, non è questione terra terra di violenza. Non è affare che si presti a facili strumentalizzazioni o sentenze social. Piuttosto uno spaccato sociale terribile, eppure potente per la forza di quel padre. Salito in auto «t’ammazzo io prima che t’ammazzi con le tue mani», il motore acceso, la figlia scesa di botto a pararsi davanti per evitare la tragedia, la mamma atterrita. Il vuoto intorno. Una famiglia in panne per davvero. Come tante, le cui crepe affondano nel silenzio, nella solitudine, talvolta nella vergogna. Perché la gente perbene, e ce n’è, si vergogna.
E pochi hanno il coraggio di ammettere che il figlio ha deragliato, che è uno spacciatore, che vende morte pur essendo uscito da una casa rispettabile.
Pochi li vanno a denunciare, li seguono in auto nel cuore della notte per metterli con le spalle al muro dei loro errori.
Una lezione alla sicumera e alla faciloneria dei più, a chi spesso difende l’indifendibile per vigliaccheria.
A quel padre, sobrio solitario in una società fin troppo ubriaca, stringo la mano da madre d’anima.