Da tempo la nostra vita è scossa da un sisma senza fine. Giorno e notte si confondono, senza più confini precisi. Un tempo a dividerli c’era la sera. E poi subito dopo il buio. E con esso le stelle. Quelle che, su invito di Dante, ognuno di noi puntualmente tornava «a riveder». Magari, per constatare con Leopardi che «dolce e chiara è la notte e senza vento» o finire estasiato con Ungaretti: «Ora sono ubriaco d’universo».
Altra è ormai la realtà. La notte non è più quella di un tempo. Intanto, non è più buia. A farla risplendere, o meglio a renderla abbacinante, provvedono miliardi e miliardi di lampade. L’inizio fu a gas, con quelle lampade che, agli occhi stupefatti dei pastori sardi immortalati da Salvatore Satta, apparvero come «candele a testa in giù». Con loro ebbe inizio la nightlife il prolungamento della vita nelle ore fino allora destinate al riposo, al sonno. E Parigi, la culla dei Lumi, non poteva che essere all’avanguardia in questa innovazione guadagnandosi il marchio di Ville Lumière.
Subentrarono poi quelle dei diffusori al sodio, a luce calda, sostituiti poi dai Led, fino a poco tempo fa di un bianco accecante. Ne ha fatto le spese soprattutto la retina dei nostri occhi: tutta concentrata ormai nella attivazione dei coni, deputati alla visione dei colori e della luce, e disabituata ormai alla mobilitazione dei bastoncelli, i fotorecettori specializzati nella visione notturna.
Il risultato è quella ledification, quella poltiglia abbacinante di led che avvolge oggi le nostre città e stria con scie sfavillanti i cinque continenti su quella Black Marble Map diffusa dalla Nasa nel 2012. Col risultato di rendere la visione del buio e delle stelle meta estrema e agognatissima del cosiddetto «astroturismo», alla portata di pochissime tasche: per non parlare del turismo spaziale dei vari Richard Branson, Elon Musk o Jeff Bezos.
In questa sinistra illuminazione del globo avanza una mercificazione integrale dell’urbano e della vita. A produrla un mutamento straordinario nelle forme e nelle strutture del metabolismo urbano.
Si pensi al commercio, rivoluzionato da internet e dall’on-line, per natura attivabile ad ogni ora del giorno o della notte, ma che, quando incarnato in materie solide, con i suoi corrieri intasa le vie cittadine desertificandole però di tanti antichi presidi commerciali di prossimità o financo dei più nuovi e un tempo avveniristici super o iper-mercati.
I repertori annuali della Camere di Commercio fotografano implacabili la scomparsa di tanti luoghi antichi - prime tra tutte le librerie con i loro ritrovati cartacei - ma anche di intraprese di lignaggio modernissimo quando non ipermoderno: si pensi alla rivoluzione del video o del suono e alla subitanea scomparsa di VHS, DVD e CD e dei relativi punti di vendita e nolo. A svettare in saldi positivi tutto ciò che si sostanzia in socializzazione e ritrovo, conviviale o di intrattenimento e svago, soprattutto nelle sue incarnazioni notturne. È la cosiddetta «movida» divenuta pietra di paragone o scandalo, secondo i punti di vista, d’ogni discussione o confronto sull’attrattività o vivibilità di città e paeselli, quartieri interi o strade, termometro strattonato tra intraprendenza imprenditoriale e civismo. Le cronache quotidiane, specie quest’estate, sono state inondate dai resoconti di provvedimenti amministrativi o giudiziari tesi a disciplinare o punire gli eccessi, a garanzia ora di flussi economici ora di quiete individuale o collettiva. Straordinaria come non mai l’attenzione agli appetiti, più o meno oscuri, più o meno legali, cresciuti alla sua ombra e ai suoi consumi, di criminalità e malaffare.
Nel bailamme di grida e proclami, tuttora assai agitato, spicca solitario e un po’ negletto l’atto di un Comune - quello di Bologna - su cui val la pena di riflettere: una delibera di giunta con, all’ordine del giorno, la costituzione di un gruppo di lavoro denominato «Tempi della città». L’intento: avviare una riflessione a larghissimo spettro ampiamente partecipata dalla città e con l’ausilio di ogni possibile esperienza specialistica per individuare tutti gli interventi e le azioni «finalizzati alla conciliazione degli orari dei servizi e delle attività pubbliche e private di interesse generale».
Un esempio che val la pena forse di seguire a più largo raggio. Il metabolismo complessivo di una comunità, le sue forme di vita, non possono essere strattonati di qua e di là o esser lasciati in balia di decisioni solitarie, dall’alto di qualsiasi scranno: amministrativo o giudiziario. È ora che le comunità riprendano in mano il timone, passando magari per inevitabili momenti complessivi di riflessione e confronto organici.
Chissà che dopo non si possa ritornare a una vita cittadina più armoniosa. E forse anche a «rimirar le stelle». Non solo nei quadri di Van Gogh o dagli oblò di inarrivabili astronavi.