Nel preambolo alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, aperta alla firma a Istanbul l’11 maggio 2011, si legge che «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi». Si tratta, quindi, secondo quell’accordo internazionale che costituisce unanimemente il caposaldo degli strumenti giuridici posti a tutela del genere femminile, di un fenomeno che ha una rilevanza sociale e non meramente individuale, potremmo dire di una piaga che si inscrive – con le sue terribili incrostazioni dure a morire – in un sistema di valori solo parzialmente (e apparentemente) evolutosi nel corso del tempo.
Se, infatti, l’universo tecnologico corre alla velocità della luce, non altrettanto può dirsi per la dimensione relazionale tra esseri umani che, anzi, per certi versi sembra regredire e farsi più cruenta forse anche grazie all’avanzata massiva dell’armamentario digitale.
Nessuna connessione esplicita tra i due mondi e sul loro fluire, certo, nessuna relazione di causa ed effetto tra le distorsioni dell’uno e dell’altro, ma una semplice constatazione dell’esistente scandito da un impoverimento delle relazioni fisiche consumato in favore di quelle virtuali. E da una progressiva desertificazione affettiva.
È un fenomeno atavico quello della violenza perpetrata nei confronti della donna, talvolta persino «istituzionalizzata» – basti pensare, sul piano normativo che mai come in questo caso riflette l’humus sociale, al delitto d’onore presente nel codice penale Rocco (art. 587) e sopravvissuto nel nostro ordinamento fino al 1981 (quando già divorzio ed aborto erano stati riconosciuti); e, per altro verso, al c.d. «matrimonio riparatore» (art. 544) che consentiva a chi aveva violentato una minorenne di non patirne le conseguenze penali, espunto dal nostro ordinamento in pari data –, che ritorna purtroppo sistematicamente agli onori della cronaca senza che interventi legislativi repressivi e potenziamenti del sistema della sicurezza riescano a produrre effetti significativi sul piano del suo contenimento.
A fronte di una progressiva riduzione degli omicidi volontari nell’ultimo trentennio, addirittura del 75% (si passa dai 1916 del 1991 ai 289 del 2020), si assiste ad un incremento dei femminicidi: se guardiamo all’ultimo quadriennio (2019-2022), alla sostanziale stabilità del numero complessivo dei primi si contrappone un incremento degli omicidi che hanno come vittime donne pari al 12% (da 112 a 125). Il lungo «processo di civilizzazione», invocato dal sociologo tedesco Norbert Elias quale fattore intrinseco di riduzione degli omicidi, evidentemente non produce effetti rispetto a tale tipologia di reati violenti. Anzi.
Il governo Meloni, all’indomani di una vicenda che ha fortemente impressionato l’opinione pubblica, prova a suscitare un’inversione di tendenza, pur consapevole che una disciplina alquanto articolata in materia già esiste e che, dunque, si tratta di un intervento teso a migliorare l’esistente. Evitando di scendere nei dettagli tecnici si può dire che vi sono indubbiamente delle novità positive, nascenti anche dall’esperienza maturata a seguito dell’applicazione della disciplina vigente, e che il ddl si muove lungo un duplice fronte, preventivo e repressivo (specificazione dell’entità del distanziamento e in generale potenziamento del sistema cautelare, velocizzazione della risposta giudiziaria, specializzazione dei magistrati impegnati in questo ambito, etc.). Particolarmente interessante il profilo del ristoro, che prevede una provvisionale per la vittima o per i suoi eredi di sicuro impatto, tenuto conto della durata poco ragionevole dei nostri processi.
Tuttavia c’è poco da essere ottimisti sull’efficacia deterrente di tale intervento. Non bastano le leggi a rimuovere un fenomeno che ha radici profonde. E al di là delle innegabili buoni intenzioni, è questo uno di quegli ambiti in cui la giustizia penale segna il passo.
Bisognerebbe, insomma, agire anche su altri fronti. Non vi è forse il rischio di effetto emulativo prodotto dai (molti) media che ripropongono morbosamente casi di questo genere ben oltre i confini del legittimo diritto di cronaca? È un fenomeno che sempre più spesso riguarda non soltanto testate, reti e programmi che vivono di gossip giudiziario, ma i media in genere, tutti immolati sull’altare dell’audience. E non vi è forse il rischio che raffinate campagne pubblicitarie veicolino un’immagine (e un modello) femminile – un tempo si sarebbe detto di «donna oggetto» – poco compatibile con l’eguaglianza e il rispetto tra i sessi? Se ne parla poco.
Su questo – e su altro – occorrerebbe riflettere, soprattutto nei luoghi della formazione (famiglia, scuola), per arginare un dramma continuo che sembra non avere soluzione. Una rivoluzione culturale, si sa, ha bisogno di tempo.