No, non si può ridere su tutto. Nemmeno sorridere. Nemmeno se lo humour è nero. Perché qui la battutaccia si riferisce ad un bimbo di tre anni morto ammazzato con la testa spaccata. Ammazzato dalla mamma, secondo la Giustizia. Dunque, care artigiane baresi di «Piattini d’avanguardia» quella tazza da latte con la scritta in evidenza: «Un po’ la Franzoni la capisco» tirata fuori per la Festa della Mamma ( !?) è una pessima idea. Di pessimo gusto. Senza scomodare la psicologia e i cosiddetti effetti evocativi che chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la Comunicazione conosce, qui siamo nel patetico, nel penoso: non c’è nulla da ridere.
Ma neppure un ghigno. Solo sconcerto e incredulità. Perché da donna, mamma e nonna vorrei dirvi che quel bimbetto cui è stata fracassata la testa a forza di botte merita rispetto. Non battute ignobilmente cretine ancora più ignobilmente stampate. Dice: sono passati tanti anni da quel 30 gennaio 2002. E quindi? Provate a chiedere a chi voleva bene a quel bimbo: il tempo conta per un dolore immane? C’è un limite che non si può superare, ovunque: quello delle persone. Delle loro vite, delle loro morti, del loro dolore.
Questa storiaccia della tazza è come un calzino bucato: puoi girarlo e rigirarlo, ma il buco ci sarà sempre. Anzi, perdonate il paragone ma lo trovo particolarmente calzante: come la cacca nel mare. Galleggia. Non affonda, non scompare. Cioè non puoi giustificarla o renderla diversa. È lì a ricordarti che hai toppato alla grande. Perché oggi tocca al piccolo Samuele. Domani, chessò, a Yara o a Sarah,o ad Anna Franck. Dunque no, non si fa, non si può ridere su tutto: persino il tutto, così indefinito e ampio, ha un limite. L’avete superato, rendetevene conto e chiedete scusa: non c’è nulla da capire.