Gianna e Francesco (nomi di fantasia) sono una coppia di Taranto che ha desiderato tanto avere un bambino e, non riuscendoci, un giorno hanno deciso di provare ad adottarne uno. Tutto inizia nel 2018. Presentano al Tribunale dei minori della loro città la domanda per ottenere il certificato di idoneità all’adozione. Superano i primi ostacoli: l’interrogatorio dei carabinieri, quello dell’assistente sociale, dell’avvocato della Asl. «Perché vuoi farlo? Che cosa ti aspetti? Lo vorresti se avesse problemi di salute? Indagano la tua reale volontà e convinzione, giusto. Ci sta». È Gianna che mi apre il suo cuore. Quando ottengono il nulla osta, toccano il cielo con un dito. Pensano che da quel momento sarebbe stato tutto in discesa. «E invece ti ritrovi completamente solo. Nessuno ti dice: ok adesso per andare avanti si fa così».
Optano per l’adozione internazionale. Scoprono che devono rivolgersi ad un ente accreditato con il CAI, Centro adozioni internazionali. «E come lo scegli? Ce ne sono tantissimi». Si affidano ai consigli di chi c’era già passato. «Ci dicevano: armatevi di pazienza, prima di 3 anni non vedrete luce». In realtà ne passeranno 4. «Scegliamo un ente fuori regione. Su loro consiglio optiamo per l’adozione di una bambina o bambino in Ucraina. Non avevamo preclusioni nei confronti di nessun’altra nazionalità ma ci dissero che i tempi con l’Ucraina erano più veloci. In 8/9 mesi ce l’avremmo fatta».
Scoprono in questo preciso istante il grande mercato dei bambini. «Per l’Ucraina servivano 10/12mila euro. Sud America 20mila euro. Russia 30mila euro perché potevi adottare bimbi anche di pochi mesi». Più piccolo e sano è il bambino, più costa. Purtroppo l’iter di adozione in Ucraina fallisce. «Ogni volta c’era qualcosa che non andava nei documenti e intanto il tempo passava».
Non mollano. Tentano l’adozione nazionale. «Scopriamo però che il decreto di idoneità che ci aveva rilasciato il Tribunale di Taranto era valido solo a Taranto. Cioè eravamo noi che dovevamo presentare richiesta in altri Tribunali, perché non c’è un registro unico. Quindi se c’è un bambino che non trova famiglia a Napoli, per esempio, non sanno che a Taranto c’è una coppia di genitori adatti per adottarlo e quel bambino finisce in un centro di accoglienza». In realtà sulla carta un registro unico nazionale dovrebbe esistere. Comunque iniziano a presentare istanza di adozione in giro per l’Italia. «Eravamo nel pieno della pandemia. Molti uffici iniziarono ad accettare in quel periodo le domande via pec. E meno male. Come avremmo potuto recarci personalmente in varie città?». Ma si sa, il diavolo è nei dettagli. «C’era chi rimandava indietro la pec, chi non le leggeva, chi voleva solo le raccomandate». Quando stavano per arrendersi, incontrano «Mamme matte», un’associazione fondata da donne che avevano adottato o erano state adottate e che avevano deciso di mettersi al servizio degli altri. «In pratica facevano da ponte tra le famiglie e i Tribunali. Questi ultimi le chiamavano quando avevano per le mani casi di bambini con problemi di salute o troppo grandi e che quindi non voleva nessuno. Non avevamo mai escluso un bambino malato purché fosse qualcosa che potevamo gestire».
Un giorno «Mamme matte» dice loro: «C’è un bambino con una sindrome rara, ha 2 anni. Stanno cercando una famiglia per lui». Era stato abbandonato a un mese in ospedale poco dopo che i medici gli avevano diagnosticato la patologia. Scoprono che aveva già subito interventi cardiaci, aveva la peg, non poteva bere e mangiare, doveva affrontare un nuovo intervento e poi fare molte altre terapie riabilitative. Il bimbo non parlava, non interagiva, lo avevano classificato come paziente con problemi neurologici. Non era dello stesso parere però la sua tutrice. «Era cresciuto in ospedale. Nella casa famiglia non c’erano altri bambini, solo ragazzi tetraplegici. La tutrice era convinta: può migliorare, ma se resta dentro quel centro è spacciato». Ci pensano e poi decidono: «Ok. Possiamo affrontarla. Non sapevamo molto altro, solo che poteva vivere e con il nostro aiuto curarsi».
Il resto è una grande storia d’amore, che toglie il fiato. Salto tutti gli altri innumerevoli ostacoli che hanno dovuto superare. Il 10 marzo 2021 lo incontrano per la prima volta. Pochi giorni dopo il giudice si convince: il bimbo piange quando Gianna e Francesco vanno via, continua a cercarli anche la notte. L’adozione finalmente arriva. Oggi L. ha 5 anni: cammina, va all’asilo, non ha più la peg, mangia e beve da solo, vive davanti al mare, gioca e soprattutto, ride, ride tanto. «Parlerà, ce l’hanno assicurato i medici».
C’è, a mio parere, un atteggiamento peggiore del cinismo in politica: la demagogia. Cosa significa famiglia naturale? Chi distribuisce patenti di genitorialità? Confesso, non mi convince la gestazione per altri. Ma sono contraria allo stato di polizia, in cui le scelte individuali delle persone - se non condivise - sono perseguite con reati vari. Ai politici che hanno addirittura definito «mostruoso» chi sceglie la gestazione per altri, chiedo: non è mostruoso il calvario che hanno dovuto affrontare Gianna e Francesco per adottare? Non è forse questo sì, un mercato dei bimbi? Perché non ve ne siete mai occupati? Iniziamo da cose concrete e semplici e confrontiamoci civilmente su tutto il resto.