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Donne, lavoro e sviluppo: nel sistema Italia pesa ancora il patriarcato

 
Salvatore Rossi

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Salvatore Rossi

Donne, lavoro e sviluppo: nel sistema Italia pesa ancora il patriarcato

Il numero di persone che hanno effettivamente un lavoro rispetto al numero totale di persone in grado di lavorare è un indicatore fondamentale di come funziona una nazione

Domenica 12 Marzo 2023, 14:16

Un’economia è tanto più dinamica, forte e resistente alle avversità quanto più tutti i suoi cittadini - sia donne sia uomini - possano contribuirvi nella stessa misura. Quando invece le leggi imbrigliano la voce delle donne, non riescono a proteggerle dalle violenze, o le discriminano sul lavoro e nei trattamenti di pensione, le donne hanno meno possibilità di contribuire allo sviluppo economico coi loro talenti, le loro conoscenze, le loro abilità. Un’economia che limita il contributo delle donne non sfrutta appieno il proprio potenziale.

Non sono parole mie ma del 9° Rapporto annuale della Banca Mondiale su «Donne, economia e leggi» presentato qualche settimana fa. La Banca Mondiale è un organismo internazionale sostenuto dai governi di quasi tutto il mondo, che ha la missione di contrastare la povertà e promuovere lo sviluppo e la prosperità soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.

Il Rapporto che ho citato è una delle molteplici iniziative di studio di quella meritoria istituzione e intende verificare ogni anno quanto le leggi vigenti in tutti i Paesi aderenti differenzino sotto gli aspetti economici la metà femminile della popolazione. Il Rapporto di quest’anno riferisce che molti progressi sono stati compiuti negli ultimi anni, ma si sono osservati anche alcuni regressi (si pensi ad esempio all’Afghanistan) e comunque il mondo è ancora lontano da una condizione di effettiva parità legislativa tra generi.

Il Rapporto mette tutti i Paesi censiti in una classifica basata su otto parametri di valutazione. I Paesi che hanno totalizzato il punteggio massimo di 100 sono quattordici, quasi tutti Paesi europei continentali, quindi non ci sono Stati Uniti, Inghilterra, Giappone. Ma non c’è neanche l’Italia. Non c’è perché nel corpus legislativo italiano è rimasta una norma, residuo di tempi antichi (art. 89 del codice civile), che fa divieto a una donna di risposarsi se non sono passati almeno 300 giorni dallo scioglimento del precedente matrimonio. È il cosiddetto divieto di commixtio sanguinis, la cui ratio è evitare che una donna mescoli nelle sue viscere il seme del precedente marito con quello del nuovo se si accoppia con i due a troppo breve distanza di tempo. Nelle sue lontane origini, prima dell’introduzione in Italia del divorzio, questa norma fissava il periodo minimo di «lutto vedovile». Veramente raccapricciante. Intendiamoci, la norma è praticamente inapplicabile, perché stabilisce una (vastissima) eccezione al divieto, che sia intercorsa una separazione legale. Ma finora non è stata mai cancellata. Il che è indice di un problema culturale, di costume. Quale?

Per un libro che sto scrivendo, ho provato a mettere a confronto l’economia italiana con quelle dei due più importanti Paesi europei - Germania e Francia - e dei tre Paesi più importanti del mondo - Stati Uniti, Cina e Giappone. Il criterio di importanza è semplicemente la dimensione economica, senza implicazioni geopolitiche, ma ovviamente i due aspetti finiscono con l’andare insieme. L’Italia non esce malissimo dal confronto, ma esibisce alcune peculiarità negative, la più importante delle quali è una più bassa capacità di far lavorare tutti coloro che ne avrebbero l’età e la possibilità fisica.

Il numero di persone che hanno effettivamente un lavoro rispetto al numero totale di persone in grado di lavorare è un indicatore fondamentale di come funziona una nazione. In Italia, secondo gli ultimi dati dell’Istat relativi a gennaio di quest’anno, poco più del 60% della popolazione totale in età da lavoro ha effettivamente un’occupazione. Il restante quasi 40% è composto da disoccupati in senso statistico (cioè persone che cercano attivamente un lavoro ma non lo trovano), «scoraggiati» (cioè persone che hanno cercato in passato un lavoro, non lo hanno trovato, si sono scoraggiati e non lo cercano più), persone che non hanno intenzione di cercarsi un lavoro perché ritengono di star bene come stanno. Il tasso di occupazione totale (60%) è la media fra un 70% maschile e un poco più che 50% femminile. Quest’ultima percentuale è fra le più basse del mondo avanzato. Ed è chiaramente il risultato delle forti tracce di patriarcato che ancora connotano la società italiana, soprattutto al Sud, e che ostacolano sia la domanda sia l’offerta di lavoro femminile.

In Italia molte donne potrebbero lavorare, anche con molto profitto loro e dell’economia tutta, ma non lo fanno perché hanno situazioni familiari che le inducono a stare a casa, per effetto di un welfare pubblico carente o per condizionamenti ambientali. Molti datori di lavoro esitano ad assumere una donna perché ne temono gli impegni familiari o per pregiudizi inespressi. Che perfino una norma di legge vigente, per quanto di quasi impossibile applicabilità, faccia differenza fra una donna e un uomo è indice di una forma mentis che impedisce un maggiore e migliore sviluppo economico del Paese.

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